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Di tutti i popoli latinoamericani, gli ecuadoriani sono forse i peggiori a dare indicazioni stradali (e questo li colloca probabilmente all'ultimo posto mondiale, vedi post su Copan di aprile). Una coppia indigena mi dice che la cascata di Peguche si raggiunge andando "sempre dritti sempre dritti" e accompagnano le parole con ampi gesti delle braccia. Peccato che si siano dimenticati di aggiungere di girare a destra dopo il ruscello. Il dettaglio e' corretto da una signora che legge ad alta voce un libro a sua madre. Per essere sicure che non mi sbagli di strada mi seguono con lo sguardo per vari minuti e - quando sono ormai tropppo lontano per sentirle - mi indicano a gesti quale sentiero seguire.
Tra le piccole meraviglie naturali che circondano Otavalo, c'e' la laguna di Cuicocha, a cui si puo' arrivare con un tour organizzato (30 dollari) oppure prendendo un bus e chiedendo a qualcuno di portarti (6 dollari e 25 cents se si fa autostop al ritorno). Il lago e' immerso in un cratere alle pendici del vulcano Cocotachi, la cui sommita' e' imbiancata da un velo di neve. In lontananza pandori vulcanici innevati e vallate verdi. In mezzo al lago, due isolette dalla forma di colombe pasquali emergono dall'acqua di un blu cosi' intenso che sembra corretto con Photoshop. Il sentiero che costeggia il lago sale e scende a 3500 metri d'altitudine tra piante basse e qualche pino. Nelle quattro ore di cammino incontro solo un contadino in contemplazione del suo campo completamente spoglio (e' cosi' concentrato che non mi azzardo a chiedergli cosa sta aspettando). Cielo terso, sole abbagliante, vento fresco.
Il giorno dopo la sveglia suona alle 4 e 45. Fuori e' buio e fa freddo. Mi aspetta in strada Pancho con una Landcruiser piu' vecchia di me. Per accenderla bisogna girare la chiave e poi premere il tasto d'accensione. La Lancruiser fa il giro di Otavalo passando a prendere Carlos, il nipote di Pancho, Pedro e Elio, un americano dall'aria stralunata. Piu' in la' imbarchiamo una coppia ecuatoriana. La strada diventa di acciottolato, poi sterrata, poi sale stretta e ripida tra case di fango. La Lancruiser tossice e ansima, poi si ferma. Sono le 7 di mattina, il sentiero inizia a 3500 metri. Sopra di noi, illuminato da una fredda luce mattinale, il vulcano Imbabura.
Passiamo un campo di grano, poi entriamo in un pascolo con erba che arriva ai fianchi. Via via che si sale l'erba diventa piu' corta ed il vento piu' forte. A 4000 metri bisogna mettersi la giacca a vento, ma mi rendo conto che non ho guanti. A partire da questo momento, ogni passo che faccio mi portera' alla massima altitudine in cui sono mai stato. L'aria si fa rada, i passi piu' pesanti. Scivolando su uno strato di fango cado in avanti ma - avendo le mani intasca per tenerle al caldo - cado con tutto il peso sul naso che, gia' grande di suo, diventera' un'enorme melanzana rosso-bluastra. Mi rialzo e continuo tra piante rosse che sembrano coralli. Negli ultimi cento metri di dislivello il vento soffia impietoso facendoci a tratti perdere l'equilibrio, mentre il sentiero si fa roccioso. Bisogna aiutarsi con le mani a salire: mani fredde, roccia fredda e ruvida. Giuro a me stesso che la prima cosa che faro' in citta' sara' comprarmi dei guanti.
Il mio orologio segna le 10.05, l'altimetro 4505 metri. Siamo in cima dell'Imbabura ma potremmo essere ovunque perche' una spessa coltre di nebbia avvolge tutto il panorama attorno. Ci si siede dietro ad una roccia per ripararsi dal vento, si mangia qualcosa e si scende prima di congelarsi.
Per scendere un sentiero molto ripido ci sono due tecniche. La prima e' andare piano e assorbire ogni piccolo dislivello. La seconda e' lasciarsi correre dal sentiero come se si stesse sciando, scivolando qua e la' sul fango o sull'erba cercando di non cadere.
La seconda che hai detto.
Quelo
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