di Patrizia Poli
Gente della VeneziaOtello ChelliFinegil Editoriale spa 2014Divisione Il TirrenoGruppo Editoriale l’Espresso
Narra la leggenda che Otello Chelli, classe 1933, abbia imparato a leggere sedendo accanto alle locandine dei giornali. Autodidatta genuino, scrive in una lingua dove ogni parola è letteraria ed intrisa di pathos, ma gli sfuggono errori e refusi che il Tirreno - da cui si può scaricare l’ebook “Gente della Venezia” - non ha provveduto a correggere proprio perché la materia di questo cantore della labronicità più intensa deve rimanere quella che è, grezza e lucente come un diamante appena scavato, aulica e popolare insieme.Anarchico e libertario, comunista in senso quasi evangelico, Otello Chelli ha alle spalle una lunga produzione di opere sia in prosa che in poesia. Il suo romanzo “La stirpe dei Morgiano”, ormai introvabile, passa di mano solo fra gli amatori. Quello che ci lascia oggi, all’età di ottantuno anni, è un vero e proprio testamento. Prima di congedarsi vuol testimoniare un mondo che vive e palpita solo nei cuori degli ultimi superstiti. Con la generosità e lo spirito solidale, a momenti francescano, che lo anima, Chelli fa in modo che il suo lascito sia fruibile da tutti e scaricabile gratuitamente dal quotidiano della sua città.Già, la città, quella stessa Livorno cantata da Caproni, patria di Mascagni, Fattori, Modigliani. Ma non tutta, solo un quartiere, piccolo per la verità, che si dilata e giganteggia, erge invisibili mura di fossati, di ponti, di barriere che lo separano dal resto del centro toscano: la Venezia.Il quartiere si chiama così perché ricorda la città lagunare, fra ponti e canali, scalandroni e navicelli; è architettonicamente molto bello, ha conosciuto il suo massimo splendore nel settecento, Luchino Visconti vi ha girato “Le notti bianche”. Per Chelli costituisce un macrocosmo, un intero universo, il teatro all’aperto dei suoi sogni di bambino, il luogo dell’anima dove tutto è possibile.Il testo è totalmente autobiografico ma di quell’autobiografismo capace di scardinare i propri limiti e ridisegnare un mondo, un territorio e un tempo popolati da una folla di uomini e donne che sembrano usciti da un atto di Cavalleria Rusticana o da un quadro di Eugenio Cecconi, anche se i fatti narrati sono posteriori e coprono l’arco che va dagli anni trenta al dopoguerra. Gente che fu, gente del popolo, svelta di mano e di coltello, pronta a lavare un’onta col sangue e a rubare per sfamare i figli, ma capace anche di dividere tutto con gli amici. Gente di cuore che sa aiutare e compatire nel senso letterale del termine.Il testo – non lo chiamiamo romanzo perché è piuttosto una sere di quadri, di “spezzoni”, come li definisce l’autore – rievoca figure storiche, con tanto di nome, cognome e soprannome. Si parte da Artemisia, madre del protagonista.
È un’Annina meno fine e meno caproniana, sanguigna, scarmigliata, dalla risata squillante, pronta a battersi come una tigre in favore degli otto figli ma anche dei figli delle vicine; capace addirittura di incontrare il duce in persona per difendere il marito dagli squadristi. Ma, soprattutto, generosa:“Artemisia aveva chiamato i figli per dare loro il solito cantuccio di pane con qualcosa dentro per insaporirlo. Lei e Pepe Nero avrebbero cenato nella fiaschetteria di Edipo con una fogliata di acciughe sotto il pesto e un litro di vino rosso.”
Dopo Artemisia, ecco la Ciucia, cui è dedicato anche il libro della pronipote Tiziana Savi,“La Ciucia per tutti, Bruna per noi”, sempre con la partecipazione di Chelli. La Ciucia era un carattere borderline, una donna buona e compassionevole, che ogni giorno chiedeva – anzi, diciamo pure pretendeva – l’elemosina per consegnarla ai soldati e a coloro che soffrivano. Sparì senza che se ne sapesse più niente.Fra i personaggi riportati in vita da Chelli, spicca la giovanissima e bellissima Doretta, innamorata di un amore infantile ma carnale, morta sotto i bombardamenti.“Mamma poteva contare abbondantemente sui soldi guadagnati con i miei traffici, la fame ci era sconosciuta, ma nel mio nascondiglio, ne avevo uno anche nel labirinto della Fortezza Nuova, più ne mettevo, più il mucchio scemava. Era più forte di lei. Non poteva dare da mangiare ai propri figli mentre intorno altri bambini e ragazzi stavano a guardare con gli occhioni spalancati e una luce mista di desiderio, brama e supplica. Così divideva pranzo e cena con tutte le famiglie abitanti nel nostro pezzo di colonia e anche oltre, per me era padrona di farlo, mai avrei potuto richiamarla alla moderazione nella spesa quotidiana, perché condividevo pienamente quella solidarietà, del resto generalizzata, forse il dato più bello da registrare in quei lontani giorni di tragedia.”
E poi Otello Bacci, il musicista assurto agli onori della rivista con Dapporto e Totò; e Silvano Ceccherini, ex capo di una banda di ladri, ex detenuto e poi scrittore; e l’amico fraterno Sansone, compagno di tante avventure pericolose e illegali, rinnegate da Chelli in favore dell’impegno politico. Come Doretta, anche Sansone è morto e mai dimenticato.“Ho vissuto una lunga, tumultuosa esistenza eppure, mentre mi avvio verso l’ultima tappa di questo mio viaggio sulla terra, la presenza dello spirito inquieto di Doretta è sempre più costante e qualche volta m’illudo che ella stia aspettando il momento in cui il mio corpo cederà alla morte, per allungare la sua mano, tirarmi su e correre insieme a me per le strade strette, battute dal libeccio, con i fossi pieni di navicelli e di vita, in una Venezia immortale che non sarà mai travolta dalla guerra che il 28 maggio 1943 distrusse le sue mura, ridusse alla rovina le sue case cancellando una splendida fiaba e disperse la sua gente in una diaspora senza ritorno”.
A far da sfondo tridimensionale ai personaggi sono i luoghi ma, specialmente, i momenti storici. In particolare tre: il fascismo, i tragici bombardamenti che rasero al suolo Livorno durante il secondo conflitto, e l’occupazione americana che trasformò Livorno in una novella Babilonia di traffici illeciti, malavita, borsa nera, “segnorine” e soldati di colore, con la pineta di Tombolo convertita in terra di nessuno, in covo di banditi e prostitute.Al di là della ricostruzione storica vivissima e partecipata, ciò che anima il racconto è la nostalgia straziante di un mondo sparito, fatto, sì, di stenti, privazioni e atti illeciti, ma anche di uguaglianza, amicizia, solidarietà, in pieno spirito labronico. Quel periodo, quello spazio, quel quartiere, incarnavano gli ideali che l’autore ha perseguito per tutta la vita. Otello Chelli è, infatti, un comunista della prima ora, di quelli che intendono l’impegno politico come lotta, ma anche amore, dedizione, onestà e purezza. Ideali destinati ad infrangersi e a rimanere sempre irraggiungibili. Ideali che, al sapore acre della sconfitta, mescolano quello del rimpianto per la giovinezza che non c’è più, per la vita che sta per concludersi. Così, quest’uomo che ha superato gli ottanta anni, quest’uomo che, dice, non ha mai avuto paura di morire, quest’uomo duro ma col ciglio bagnato del poeta, si congeda da noi tramite la riaffermazione lucida e disperata di ciò in cui ha sempre creduto.“Mi inginocchiai sulla terra sotto la quale era stato sepolto e immersi un dito nella superficie marrone, fresca d’umidità, piena dell’odore buono dei campi e pensai ala sua anima: sapevo come in quel momento Sansone fosse finalmente libero.”
E ora, anche se nel testo esaminato non è compresa, ci piace accostare - timidamente e con pudore - una poesia di Chelli che commemora la figura di Artemisia ad una caproniana in memoria di Anna Picchi. Lo facciamo così, senza nessuna pretesa, solo col piacere di evocare sentimenti simili.IL CARRO DI VETROGiorgio CaproniIl sole della mattina,in me, che acuta spina.Al carro tutto di vetroperché anch’io andavo dietro?Portavano via Annina(nel sole) quella mattina.Erano quattro i cavalli(neri) senza sonagli.Annina con me a Palermodi notte era morta, e d’inverno.Fuori c’era il temporale.Poi cominciò ad albeggiare.Dalla caserma vicinaallora, anche quella mattina,perché si mise a suonarela sveglia militare?Era la prima mattinadel suo non potersi destare.IN MORTE DI MAMMA ARTEMISIAOtello ChelliCorsi, con il cuore che martellava dentro,nella notte interrottae nei silenti, deserti corridoi dell’ospedale,la speranza lentamente svaniva nell’affannodi una certezza che mi strozzava in golal’urlo del distacco imminente da te viva.- “Muore colei che mi stringeva al pettocon amore,quietava i sonni miei,e mi donava il sangue dal suo seno.” -La porta aperta sul volto tuo disteso,gli occhi velati, la fronte senza rughe,una carezza e il tenue calore rimasto sulla pelle,come il tenero petto di un passerotto implume,mi resero il bambino disperatoche piangeva svegliandosi nel buio.Ora non c’eri più con il tuo sguardo,a placare le molte mie inquietudinie gli affanni della ricerca anticache mai mi ha dato requie.La morte si era presa il tuo respiro,senza l’ultimo abbraccio dei tuoi figlied io gemevo piano, con il visoposato sul tuo capo reclinato.L’alba mi vide accanto al freddo marmo,chinato sul tuo corpo a ricordarei momenti più belli della vitae i giorni sfortunati.Poi vennero i fratelli e le sorelle,i mille pianti, i fiorie il noce lucidato della bara,il lento camminare sull’Aurelia,con gli amici in attesa avanti casae i mattoni a serrare il nostro cuorenella gelida morsa del dolore.Ora, trascorso il tempo, sono sceso quaggiù,nell’oscuro snodarsi delle tombe,davanti al tuo ritratto.Brillano fiochi lumi e il tuo sorriso,tra il biancheggiar dei fiori,è una povera immaginedella squillante risata di mia madre,quando, giovane, bella e forte,un bimbo rincorreva lungo il vialeaccanto alla Crocetta di Saglietto.Eppure, Mamma, il tuo ricordo,nonostante lo scorrere di giorni mai tranquilli,è presente, ben vivo e mi accompagnain questa vita vissuta intensamente.Il tuo corpo è tornato nella terrache si frantuma attorno e che rinascedalle ceneri sparsedi un fuoco che ha vissuto sessant’anni.Tu rivivi con me, con i miei giorni,soffri e gioisci nei miei sentimenti,ti rifletti negli occhi dei miei figli,scorri con me le pagine diversedegli anni che trascorrono, cadendo,uno sull’altro, come foglie d’autunno.“Voltai le spalle al tumulo e mi avviai verso la città laddove avrei affrontato altri settanta anni di vita tumultuosa, inquieta, mai facile, ma ricca di impegno e sacrifici, di dolore e felicità, di ideali poi infranti dagli uomini, in me, però, rimasti vivi come allora e sempre.”
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