Otto Gabos si muove fra fumetto (nella doppia veste di scrittore e disegnatore), illustrazione e letteratura fin dalla metà degli anni ’80. Partecipa alla vita di riviste quali Frigidaire, Dolce Vita, Cyborg e alla fondazione di Fuego e Mondo Naif. Molte sue opere sono contraddistinte da un tono che utilizza il realismo magico e il surreale, dove l’elemento fantastico mira a uno spiazzamento che offra la possibilità di una visione non scontata delle vicende narrate.
Da segnalare le collaborazioni con Pino Cacucci, da Tobacco a La Giustizia siamo Noi, e Loriano Machiavelli (Sarti Antonio, come cavare un ragno dal buco) e le opere per giovani lettori, quali Banana Footbal Club e il romanzo Arrivano gli Gnummo Boys.
A quella di autore, Gabos affianca l’attività di insegnamento presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna.
Il tema della mostra di Treviso Comics, “Otto Gabos: Atlante del viaggio immobile”, è il viaggio, ma è anche un “Gabos in mostra”, giusto?
È una mostra antologica in cui affioro attraverso le opere. Un percorso temporale con stili e tematiche molto differenti. A tratti contraddittorie, almeno ai miei occhi. Offre la possibilità di vedere come sono cambiato e, in questo senso, è anche un mettersi a nudo. In una simile mostra si diventa molto vulnerabili, perché, senza una storia dietro, i disegni sono senza filtro, senza un collante che faccia da filo conduttore. Non so che effetto mi farà anche perché non so ancora niente dell’allestimento.
Quindi, e ciò suona paradossale, le storie sono come dei nascondigli, dove riponi pezzi di te? Avrei detto che le storie mettono in mostra l’autore, invece tu sostieni che lo nascondono, gli offrono riparo.
Sono vere entrambe, ma i disegni senza una storia dietro rivelano altri aspetti ancora, aspetti che esulano a tratti dalla poetica consolidata. I disegni sono da leggere attraverso il segno, la composizione e visti in mostra c’è pure la componente non indifferente della materia e dei ripensamenti, delle correzioni. Mentre il libro, quindi l’opera a cui quei disegni appartengono, segue un itinerario preciso, che poi di fatto viene proposto, se non imposto, al lettore. Una tavola a fumetti estrapolata dal suo insieme di riferimento è senza difese. È quello che appare. Segno, tecnica, materia, evocazione con un segmento di racconto.
E sono aspetti di cui eri consapevole mentre scrivevi o che non pensavi di aver messo nella storia?
A volte me ne sono accorto dopo. Questi giorni in cui ho cercato e recuperato il materiale sono stati molto istruttivi.
Quindi la mostra sarà innanzitutto un viaggio anche per te attraverso la tua opera?
Un viaggio profondo, molto intenso, nostalgico; a tratti pure doloroso, poiché i disegni si associano a momenti e diventano frammenti autobiografici. Questa mostra io l’ho pensata così e il titolo va in questa direzione. Ho voluto giocare su due fronti e ho inserito anche qualche inedito, quasi dei segreti, piccole confessioni che per l’occasione ho voluto condividere.
Il viaggio nel (proprio) passato è un viaggio in un vicolo cieco, in qualcosa che non si può cambiare mentre i tuoi viaggi narrativi sono sempre alla scoperta di qualcosa (I Camminatori) e animati (penso a Esperanto) da obiettivi forti.
Vero, verissimo. Da una parte entra in gioco la memoria, la componente nostalgica che è una delle mie caratteristiche portanti. Dall’altra c’è l’esplorazione dello spazio, specialmente quello urbano. L’esplorazione di diversi piani possibili, della realtà, di futuri possibili, di passati che sarebbero stati possibili. Sono slanci diversi in direzioni opposte con la stessa intensità. Alla fine il viaggio nella memoria altera lo spazio, attraverso processi di valutazione, percezione, ricostruzione. Vorrei scrivere sui negozi scomparsi e sostituiti da altri che oscurano la memoria, luoghi che con il tempo sono stati sostituiti da altri luoghi, luoghi che comunicano un senso di smarrimento per il vuoto di memoria che vengono a creare.
E, direi, le storie scaturiscono proprio dal tentativo di ricostruire (quindi in qualche modo valutare e offrire alla percezione altrui) queste trasformazioni; oppure è il senso di smarrimento in sé che anima la storia (in fondo ne Il Viaggiatore Distante segui codesto approccio)?
Io sono mosso dalla prima. Però poi mi sono reso conto che in corso d’opera arriva lo smarrimento. È un po’ perdersi senza controllo. Una deriva che va assecondata, seguita. E allora inizia il vero viaggio, in cui a tratti autore e personaggio si scambiano di ruolo. Questo è il viaggio immobile del titolo della mostra.
Perché “immobile”?
Perché in apparenza non ci si sono spostamenti fisici di luogo. È un viaggio verticale, interiore. Non si parte per una destinazione ufficiale. Si tratta di una compilazione di un altro atlante. Intimo.
Ma allora, in codesto senso, anche l’atto di scrivere, nella misura in cui nasce da una spinta interiore, è un “viaggio immobile”.
Sì. Mentre il documentarsi, prendere appunti, è “mobile”.
Quando parlavi di disorientamento di fronte ai cambiamenti del paesaggio, mi è venuto in mente il tuo romanzo per ragazzi Arrivano gli Gnummo Boys: lì la vicenda nasce proprio dalla scoperta di una trasformazione del paesaggio della periferia.
Esatto, la periferia è un mutante. Invade e ridefinisce lo spazio. Un portento per la costruzione dell’immaginario! Per me, che da bambino ho vissuto in centro città, la periferia era la frontiera, l’avventura negata.
La periferia come frontiera, come una sorta di ambientazione da fantascienza.
È così: si va dal dopobomba al mondo alieno, alla realtà parallela.
In periferia, gli orrori edilizi come deformazioni mostruose del monolito di 2001, che annunciano condanna e nessuna redenzione!
Proprio loro!
E aggiungerei, che è dallo studio delle periferie che si capisce il cuore di un’idea di sviluppo, di cittadinanza, di umanità.
La periferia è la sede della poesia urbana. Il precario, il brutto, l’opprimente, gli spazi compressi degli alloggi, opposti agli spazi dilatati dei casermoni, delle piazze senza nome e senza alberi. È qui che si ridefinisce un’epica fatta di gente ai margini, di gente sugli autobus, di strutture degradate che diventano affascinanti nella loro ultima mutazione. Tutti elementi impossibili da trovare in centro. In centro devi scavare, la parte più interessante, da un punto di vista dell’immaginario si trova oltre i cancelli, dietro le porte, sotto i marciapiedi. In centro scopri i livelli nascosti, gli strati sedimentati, i cunicoli: La base di Esperanto.
Esperanto e Apartments sono anche visioni urbanistiche e l’urbanistica ha sempre una imprescindibile componente sociale e politica.
Componente inscindibile. Pensa al sacco edilizio degli anni Sessanta: da allora le città italiche sono diventate mostri estetici. L’edilizia popolare ha mortificato le coscienze. In cambio di un tetto sicuro c’è l’annichilimento del piacere estetico in quanto effimero e decadente. Anche il presente andrebbe progettato con una visione prospettica futura. Il futuro, quello molto prossimo, l’ho affrontato in Aparments, esempio di città chiusa. È avvolta sotto una cupola magnetica che la tiene lontana dal resto del mondo, non certo per apartheid volontario ma piuttosto per il terrore della contaminazione radioattiva. Una città mutante, devastata, ridotta in macerie che cerca di ritrovare un equilibrio attraverso il ripristino disperato della quotidianità. Tale situazione estrema dà origine a nuove tipologie architettoniche dove il neorovinismo diventa il vero e proprio stile dominante. A suo modo Apartments è un esempio di Romanticismo rivisitato.
Non sono un grande viaggiatore, ma di alcune città che ho visitato (da turista) mi colpisce anche il fatto che i centri si svuotino, siano solo gusci di attività produttive o, peggio, finanziare (penso a Londra, Bruxelles).
La nuova city di Londra è una vera mutazione, una traslocazione massiccia di un sistema dal centro storico ai vecchi docks sul Tamigi. L’esempio pratico dell’evoluzione di una nazione come l’Inghilterra che da paese manufatturiero e commerciale si trasforma in un agglomerato finanziario. La morte dell’Occidente si consuma così in una ridefinizione e riqualificazione di un’area urbana obsoleta. La vita si trasferisce altrove, un po’ com’è successo al Village di New York, migrato in massa a Williamsburg nel cuore di Brooklyn.
Di fronte a questo sconforto (rispetto anche allo spazio fisico in cui viviamo), il viaggio non è anche rifugio, escapismo? Tentativo di definire un ambiente sotto controllo (una storia, come hai detto tu stesso è un ambiente sotto controllo)? Il viaggio è un obiettivo su cui concentrarsi, da cui trarre un minimo di soddisfazione?
Il viaggio è comunque anche fuga, la diretta conseguenza di un disagio esistenziale o di sopravvivenza. La ricerca dell’altro e dell’altrove nasce da un disagio. L’escapismo è ossigeno. Anche eversione, anche rifugio. Puoi anche viaggiare da fermo come Salgari o come Proust con i dettagli, i frammenti, i ricordi, o viaggiare talmente tanto come ha fatto Chatwin, nella cui narrazione i luoghi creano una tale ragnatela di rimandi e connessioni da annullare le distanze.
Cambio radicalmente argomento. Costruire il presente pensando al futuro. Quando scrivi per gli adolescenti (Gnummo Boys, Banana Football Club, che pure è un adattamento), pensi di partecipare alla crescita dei tuoi lettori? Di preparare, in qualche modo, i lettori adulti di domani?
Mi metto nei loro panni, vivo come loro, voglio stupirmi e annoiarmi come loro. Cerco di comunicare che le cose è meglio viverle che starle a guardare. Per me è una sorta di riparazione del danno fatto o subito a quell’età: divento un compagno di viaggio che ha dimenticato certi tratti del viaggio intrapreso. Cerco di evitare una componente pedagogica troppo presente, anche perché non amo il politicamente corretto.
Come è stato il rapporto con l’editoria per ragazzi? Quanto è diverso dall’editoria fumettistica?
Parecchio diverso. Intanto, le redazioni sono tutte al femminile! Le donne leggono di più e amano parlare di libri. Mi piace un approccio che ti mette in una condizione di comunicare e scoprire modalità diverse. Apprezzo molto un punto di vista in apparenza distante.
E quanto offre come editing (lo chiedo perché mi sembra che nel fumetto sia una fase spesso sottovalutata)?
Nella realizzazione di Gnummo Boys e Banana Football Club si è sviluppato un editing dialettico. C’era un rapporto costante, quasi quotidiano, fatto di scambio: suggerimenti, anche scontri. Ma è più bello lavorare così, piuttosto che nella solitudine del fumetto. Ci sono pochissimi veri editor nel fumetto italiano. Intendo editor non soltanto censori in nome dell’ortodossia, ma piuttosto figure simili al produttore discografico: creativi e di sostegno, con l’intento dichiarato di far crescere il libro. In tanti anni di lavoro, io ne ho conosciuti tre veramente in grado di dare un’impronta decisiva: Daniele Brolli, Igort e Luigi Bernardi.
Fumetto, letteratura scritta, mondi e linguaggi diversi, immagino anche stimoli molto diversi.
Mi piace alternare. A un romanzo per un pubblico più adulto mi piace dar seguito a qualcosa rivolto ai ragazzi. Stesso impegno, stesso coinvolgimento. Cambia il filtro d’approccio. Quando scrivo e poi disegno per i ragazzi mi viene spontaneo immedesimarmi. Torno indietro nel tempo e divento lettore. Cerco di emozionarmi e soprattutto mi diverto parecchio. La componente ludica in questo caso diventa fondamentale.
In particolare, a che cosa stai lavorando?
Sono alle prese con un progetto lungo che uscirà per Il Giornalino. Un ritorno all’edicola e ai periodici dopo tanti anni. Motivo di orgoglio e soddisfazione pubblicare per una rivista storica che da bambino, insieme al Corriere dei Piccoli e poi dei Ragazzi stava alla base del mio immaginario. È una storia avventurosa, ambientata alla vigilia della prima guerra mondiale. Il protagonista è un bambino, un piccolo emigrato calabrese in viaggio verso l’America. È solo l’inizio di un’avventura fantastica. Segno e ambientazioni sono parenti di Esperanto ma l’afflato narrativo è molto diverso, pieno di senso di stupore, di trovate, citazioni. Ancora una volta un romanzo di formazione intriso di realismo magico.
E, come Esperanto, mi sembra nasca dalla tensione fra storia reale e elementi fantastici.
Sì. Il prossimo anno sarà poi dedicato a un ritorno in Sardegna. Narrativamente parlando ci sono stato nei mesi scorsi, quando ho realizzato per il quotidiano l’Unione Sarda un albo che racconta in modo trasversale l’eccidio di Buggerru, il primo sciopero di minatori finito nel sangue. Le forze dell’ordine uccisero tre minatori. Era il 1904.
L’albo fa parte della collana Storia della Sardegna a fumetti ideata da Bepi Vigna.
Ritorno ancora in quei luoghi minerari con un romanzo, L’illusione della Terraferma, noir storico ambientato negli anni della fondazione della città di Carbonia durante il fascismo poco prima dello scoppio della guerra. L’illusione della Terraferma uscirà per Lizard.
In parallelo a tutto questo, un progetto con Luigi Bernardi, Quaderno di Disciplina. Una storia dura e fredda dove la scrittura si alterna al fumetto e all’illustrazione. Ma di questa mia ultima direzione ne abbiamo già parlato prima.
Direi che per un po’ avrò da fare.
E allora, oltre che a ringraziarti per la tua disponibilità, non ci resta che augurarti buon lavoro.
Intervista condotta in chat e mail il 22-26/09/2013
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