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I tuoi ultimi anni sono state come le schegge della Croce Santa nelle tue mani stanche: ti ho immaginato tentare di risalirne il tronco principale, nel tentativo di raggiungere una cima ideale, sperata, dove porre fine al tuo immenso dolore e alla sconfinata solitudine. Eppure mi ricordo con gioia immensa le estati belle trascorse sulla panchina di quercia, accanto alla tua casa sul limitare del bosco. Sento ancora il palpitare del mio cuore adolescente e il crepitio del sale sulla mia mente vergine, ansiosa di apprendere ogni cosa su quelle valli che mi apparivano fatate. Ricordo ancora la tua voce e i tuoi racconti: spero di non perderli mai nei labirinti grigi della memoria e spero arriverà il giorno in cui potrò donarli anche io. Ma ora rimbalzo nei ricordi e nel dolore: il tuo dolore, quello della solitudine e della paura del futuro; quello della ferita incolmabile per non essere mai stata mamma come avresti tanto voluto. Il dolore è stata sempre la tua ombra, anche sotto il sole più alto. Io pensavo di capirti e forse è stato davvero così. Poi sono cresciuto e il dolore ha colpito con forza anche la mia vita. E non ti ho sentito vicina in quei momenti neri di ossidiana. Così è iniziato il distacco degli ultimi anni. La decadenza e la lontananza. Che ora vivo con tutto l’umano rimorso di cui un uomo può essere capace. Avrei voluto esserci ma qualcosa mi teneva lontano. Sapevo che la tua sofferenza stava diventando più grande del cielo e che te ne oscurava la vista. Sapevo che il dolore stava intaccando anche il tuo corpo non più giovane. E tentai di allungarti una mano. Ma già mi pareva si fosse innalzato un muro fra di noi. Di cui non comprendevo l’origine. E mi sono sentito abbandonato. E ti ho abbandonato. Ho seguito il declino costante delle tua vita da lontano. Come una vedetta su un faro che osserva da riva il naufragio di una nave. Senza fare nulla. Mi chiedo se tu abbia pensato, negli ultimi mesi, a me. Se tu abbia vissuto con dolore il mio abbandono. Se ti sia chiesta il perché o se tu abbia avuto ben presente il motivo. Io ho cercato di seppellire il rimorso fino alla fine. Finché ho saputo che ce l’avevi fatta. Il dolore era finalmente finito. E il mio rimorso è esploso nel dolore acuto della perdita. Ora che ti ho visto addormentata nel tuo ultimo sonno e mi sei sembrata così serena sul tuo volto diamantino, voglio credere che abbia trovato la tua dimensione. Voglio credere tu abbia raggiunto uno Sheòl * di pace e di spiriti buoni. Voglio credere che questa tua morte sia riemergere dalle profondità del dolore. A me non rimane che lasciarmi morire in bocca una preghiera e augurarti un buon viaggio. “Out of the depths I cry to you oh Lord, don’t let my cries for mercy be ignored.. And I’m wondering will you ever get yourself free. Is it bad to think you might like help from me?”. Se mai potrai perdonare la mia assenza, vorrei che tu sapessi che tutto quello che mi hai lasciato nel cuore e nella mente, non sarà solamente spreco sotto il sole. Se il salario dei morti è il ricordo dei vivi **, tu sarai ricompensata. Addio Vilma. (7 giugno 2011).
* Sheòl in ebraico è “Il luogo dei morti”, collocato negli abissi del sottosuolo. La stessa parola, con la medesima grafia, in gaelico significa “Navigare/Veleggiare”.
** “Kohèlet” 9.5
Le parti in inglese sono tratte da “Out of the depths” di Sinead O’Connor.
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