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Outrage Beyond (アウトレイジ ビヨンド, Outrage Beyond). Regia, sceneggiatura: Kitano Takeshi; fotografia: Yanagijima Katsumi; scenografia: Isoda Norihiro; montaggio: Kitano Takeshi, Ota Yoshinori; musica: Suzuki Keiichi; interpreti: Kitano Takeshi, Kase Ryo, Nisida Toshiyuki, Miura Tomokazu, Sugata Shun, Kiritani Kenta; produzione: Office Kitano. Durata: 112’. Festival di Venezia 2012 – In concorso (2/9/12). Uscita nelle sale giapponesi: 6 ottobre 2012.
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C’è qualcosa in quelle dissolvenze a nero, in quelle interruzioni lente ma decise che attraversano e solcano Outrage Beyond di Kitano Takeshi. C’è, anzitutto, l’ostentata volontà di infrangere una continuità, che è al tempo stesso una continuità di racconto e un’ossessiva ripetizione del gesto, del rituale, della morte. Il secondo capitolo di Outrage è una sorta di necessario compimento del primo; la freddezza compositiva, o la sua raffinatezza, per meglio dire, non vengono chiamate in causa per sottolineare una scelta di stile – laddove il cinema di genere ha ormai detto tutto quello che c’era da dire, allora non resta spazio se non per lo stile, l’ultimo elemento del cinema, orpello funebre ma al tempo stesso disperato richiamo alla forza della bellezza – no. La duologia di Outrage, il ritorno (e al tempo stesso il rovesciamento interno) allo yakuza film da parte di Kitano è, da questo punto di vista, appunto, un andare oltre, beyond. Ma oltre cosa?
Si potrebbe rispondere in molti modi; il primo riguarda un percorso teorico e poetico che caratterizza il cinema di Kitano da qualche anno a questa parte. Da Takeshis a Achille e la tartaruga, passando per Glory to the Filmaker, il regista giapponese prosegue il suo percorso di ripensamento radicale non solo del suo cinema, ma – attraverso le sue forme e le sue ossessioni – dei meccanismi che sottendono ad ogni processo creativo. Tutto riconduce, in Kitano, ad una sorta di dialettica senza risoluzione tra distruzione e creazione. Non si tratta di un gioco postmoderno in cui tutto vale e ogni cosa è compresente, ma un gesto che dimostra esattamente il contrario. Kitano ritorna alle radici del moderno, della narrazione e della costruzione delle forme articolando con un rigore straordinario la prospettiva teorica che lo caratterizza: quella secondo la quale l’atto di creazione è sempre, al tempo stesso, un gesto di distruzione: dell’identità (come in Takeshis), della narrazione (come in Glory to the Filmaker), e del significato stesso del gesto artistico (Achille e la tartaruga). Ma questo non significa affatto negare con atteggiamento nichilista il cinema, o qualsiasi forma di espressione. Al contrario.
Si tratta, precisamente di rimanere nel cinema, nel suo solco, nella sua tradizione; si tratta di riprenderne gli elementi, le strutture, il linguaggio. Si tratta di farlo, sì. Ma si tratta di farlo con la consapevolezza che sono proprio le forme classiche del cinema quelle più aperte al vuoto di senso, alle improvvise interruzioni, alle interrogazioni più radicali.
Outrage 1 e 2 sono lì, a riprova di questo. Non si tratta di un ritorno agli yakuza film che avevano caratterizzato la prima produzione di Kitano, ma di operazioni al tempo stesso narrative e teoriche. Nei due film, ogni elemento cinematografico (inquadratura, movimento di macchina, stacco di montaggio, dissolvenza a nero) è impiegato con una linearità radicale, senza scarti, senza apparente oscurità. Eppure tutto rimanda, ancora una volta, ad una sorta di evanescenza crudele del cinema, alla sua illusione costituente.
Ed ecco la seconda possibile risposta alla domanda fatta in apertura, sul significato dell’andare oltre per quel cinema di cui il film di Kitano è un esempio. Outrage Beyond è, da questo punto di vista, un film assolutamente classico e al contempo è un film che rielabora in un modo completamente nuovo le forme classiche, mostrando al loro interno la vertigine in cui ci si può perdere, la disperazione di una forma che non può che raccontare le ferite del reale, di uno sguardo che non può che attestare la disperazione di un potere senza più limiti né ideali. Andare oltre significa allora riprendere le forme del classico e mostrare il gioco vuoto che in fondo le sottende, il girare a vuoto e la ripetizione che è il movimento spesso nascosto di ogni narrazione. Non si tratta di una ripresa del cinema di Fukasaku o Suzuki, di immagini e sguardi che hanno ribaltato l’immagine romantica dello yakuza film, facendolo diventare lo spazio immaginario attraverso il quale parlare della disperazione del mondo. Il percorso di Kitano è più personale e riguarda un doppio ritorno, come si è detto.
Un ritorno alle proprie forme originarie, quasi per mostrarne il lato oscuro, per mostrare il vuoto che le sottende: non è in questo senso straordinariamente simile al movimento che Pasolini compiva retroattivamente sui film della trilogia della vita con Salò? La trilogia della vita, rivista dopo l’ultimo film pasoliniano, si trasforma così in quadrilogia della morte o quadrilogia del rapporto indissolubile tra vita/morte/potere.
Ma il secondo significato del movimento del ritorno sta nel riprendere (o nel non aver mai abbandonato) le forme classiche del cinema, di averle anzi seguite fino al limite. Così facendo, Kitano si colloca all’interno di una linea precisa, che pensa la contemporaneità secondo modalità del tutto nuove.
Andare oltre, dunque, come un falso movimento? In realtà non ci si muove, in apparenza, dalla forma classica; ma è solo apparenza, appunto. È a partire dal pieno della forma classica che Kitano pensa il tempo presente come ripetizione, movimento circolare. I personaggi di Outrage 1 e 2 sono già da sempre morti, già da sempre spettri (a partire da Kitano stesso, il cui personaggio, Otomo, ritorna in scena dopo che era stato dato per morto dopo il primo episodio). Morire non è che un gesto che attesta una condizione paradossale di chi vive un tempo bloccato, dove, appunto potere e vita ruotano su se stessi.
Perché questo lungo percorso su Kitano e Outrage Beyond (che però non si può separare da Outrage, essendo i due film due tappe di un unico percorso)? Per trovare delle tracce da cui partire: tracce che permettono di individuare all’interno delle forme di cinema quegli scarti significativi all’interno di una proposta di cinema che spesso delude, che molte volte nasconde l’immagine quando sembra mostrarla, che preferisce ripresentare il già visto, il cliché acriticamente, piuttosto che lavorarlo dall’interno, portarlo fino in fondo, mostrarne il vuoto che lo sostiene. [Daniele Dottorini]
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