lunedì 27 maggio 2013 di Marilisa Dones
N.B: Questo post, nato da una discussione su Facebook tra me, Enrico Flaccovio, Noemi Venturella e Vincenzo La Spesa, è stato composto a sostegno della tesi secondo cui i social network hanno delle grandi potenzialità positive. E voi lo dimostrerete articolando la conversazione nei commenti.
La discussione prende il “la” dalla condivisione di un articolo da parte di Enrico che cita me e Noemi e ci chiede cosa ne pensiamo, in quanto psicologa lei, social addicted io.
Il post riguarda il fenomeno dell’oversharing. Prima di addentrarci nel cuore della discussione, vediamo un po’ di cosa si tratta.
L’oversharing tecnicamente è quando si condividono in maniera eccessiva informazioni riservate ed esperienze troppo personali sui propri profili personali.
Questo post è molto interessante e ne consiglio la lettura. Ovviamente c’è chi lo fa in maniera del tutto bonaria e non necessariamente perché affetta da problemi di egocentrismo patologico, di cui si parla nel post di partenza.
Però – osserva Enrico – se ci guardiamo intorno è proprio vero: alcuni utenti sono un po’ ossessivi nel descrivere minuziosamente ogni minuto, ogni sfumatura della loro vita.
È come se fossero (se si sentissero) dei micro-vip che hanno costantemente bisogno di alimentare il loro essere “very important”.
Noemi da parte sua osserva che ormai è un fenomeno abbastanza (tristemente) palese, ma rilancia dicendo che è altrettanto inquietante lo scenario dei retro-vips che hanno costantemente bisogno di incensare questi “micro-vips” per essere “visti”.
Io da parte mia credo piuttosto che questo fenomeno sia una sorta di evoluzione (a volte distorta) dei rapporti.
Se ci pensiamo, prima dell’avvento dei social network, prima dei collegamenti multimediali, quando eravamo contenti o tristi per qualcosa o avevamo un problema ci rivolgevamo ai nostri amici condividendo fisicamente con loro i nostri stati d’animo.
Nella mia riflessione parto dal presupposto secondo cui per me la vita sui social network non è una alternativa, ma bensì una sorta di prosecuzione della vita reale, perché è reale anch’essa, a tutti gli effetti.
Per cui alla fine cambiano le modalità di condivisione, ma se una persona è fatta in un certo modo, per esempio è (come nel mio caso) molto espansiva, non è strano che condivida moltissimo e usi il social network come mezzo di comunicazione: magari prima faceva una telefonata o in tempi non tanto lontani mandava un sms, adesso invece sarà naturale (come lo è per me) postare una foto o un articolo sul diario o su un gruppo in cui si parla di determinati argomenti.
Fondamentalmente io credo che i social network colmino alcune distanze, soprattutto fisiche.
E per questo credo che, se vissuto in modo sano e con le dovute misure, l’uso di strumenti come i social network possa trasformarsi in qualcosa di positivo. Come questo post, nato da una discussione sul mio diario di Facebook.
È ovvio che se a usarli è una persona compulsiva, il suo uso sarà di riflesso compulsivo. Ma non sono affatto d’accordo nell’additare Facebook e compari come l’anticristo.
Anche perché, per esempio, io vivo (male) il fatto di avere i miei più cari amici lontani e se non fosse per i social network, a causa della routine quotidiana, perderei i contatti. Ok, non è la stessa cosa che viverci giorno dopo giorno e fianco a fianco, ma almeno li sento più vicini, quanto meno posso scambiare con loro battute di spirito o comunicare in modo veloce e istantaneo e aggiornarmi su quanto accade nelle loro vite.
Secondo Vincenzo i social sono un surrogato della vita sociale e poiché i surrogati per definizione non soddisfano, li si usa in eccesso finché non è la stanchezza a fermarci. “I social secondo me non colmano un bel niente, niente di sociale quantomeno”.
Anche Noemi è su questa lunghezza d’onda e se da un lato ammette che la vita sui social sicuramente è una prosecuzione della vita reale, qualche (serio) dubbio sul fatto che sia sana permane. E invita a pensare al solo fatto che si condivide con un molta gente (anche estranea o semitale) quel qualcosa che prima avremmo condiviso in modo diretto con qualche persona più intima!
E rilancia e nota un altro atteggiamento correlato all’oversharing, nel senso che ne è uno dei risvolti della medaglia.
Si tratta di una sorta di “lurking”, cioè tutte quelle persone che letteralmente vivono dando una “sbirciatina” ai profili altrui e leggendo quotidianamente le cose pubblicate dagli altri.
Si “aggiornano” sul mondo in questo modo, per usare un eufemismo. Però non scrivono niente, stanno sempre “off-line” e tacciono: si “nutrono” di altri senza dare alcun feedback.
Anche perché, effettivamente, questa realtà virtuale (come si diceva anche nell’articolo che ha dato il via alla discussione) ben si presta ai monologhi. Insomma, non presuppone quel dialogo e quello sviluppo maggiormente insiti nella comunicazione dialogica.
In pratica, scriviamo sui social network e le nostre parole sono delle bottiglie nel mare che non si sa a chi arrivano e perché arrivano.
Forse dovremmo interrogarci – continua Noemi – sul perché lo facciamo e sicuramente dovrebbe porsi questi interrogativi chi lo fa in modo esponenziale. Ma alla fine – nota – sono le persone come noi che se lo chiedono, quelli che lo fanno ogni tanto o con dei messaggi ben precisi.
Ma, effettivamente, chi letteralmente “vomita” al mondo-indifferenziato anche quante volte al giorno si cambia le mutande è probabile che non abbia neanche lo spazio per pensare e cercare un dialogo che non sia un dialogo di conferma e di incensamento. E (tra parentesi) non è nemmeno detto che quello che fa sia neanche un monologo, anche perché un monologo presuppone già un certo livello di elaborazione psichica. Più probabilmente – conclude Noemi – è una sorta di “agito” in forma di parola battuta su una tastiera (in psicologia si parla di acting).
Io chioso le riflessione di Noemi con questo pensiero che si sposta sul lato che mi compete.
I social si basano sulla condivisione, quindi se si “spiano” gli altri e non si condivide nulla non si è minimamente capito lo spirito di fondo di questo strumento, e si rischia solo di fare i “guardoni”. Di certo non sei “social”, ma a-social.
Penso a questi personaggi con un po’ di inquietudine, ma anche in questo caso credo che emerga in questo genere di comportamenti la personalità dell’utilizzazione.
Probabilmente – mi viene da pensare – si tratta di persone che amano stare anche nella vita reale davanti le finestre senza mai uscire, come quelle vecchine che si trovano ancora nei paesi sedute sulla porta ad osservare il passìo (le persone che passano).
Gente sola che nemmeno in questo caso riesce a connettersi con l’altro e creare legami, e per cui anche nella vita virtuale si è ritagliata questo ruolo.
A questo punto, Vincenzo fa presente che un aspetto tutt’altro che sano è quello delle pagine spotted che sono popolate da gente che scrive cattiverie e insulti sapendo di restare anonima. E che la cosa più preoccupante è che si tratta di gente che magari sei solito incontrare e che ti saluta come se niente fosse. “Avete presente – chiede Vincenzo – quelle tesi psicologiche sulla devianza che dicono che se si togliesse il “controllo sociale” quasi tutti diventerebbero deviati? Ecco, le pagine spotted ne sono la prova”.
In conclusione tengo a precisare che i social network sono UN mezzo e non IL mezzo di comunicazione e condivisione per antonomasia.
Ma è un mezzo importante per tutta una serie di motivi.
Per quanto mi riguarda sono motivi professionali, di affinità, di interesse, di amicizia e molto altro ancora.
E tu che ne pensi?
Condividi con noi le tue opinioni e partecipa a questa discussione.