di Enrico Flaccovio
Cominciamo dalla preistoria. Sempre.
Nel linguaggio televisivo lo share è il rapporto percentuale tra gli utenti che condividono la visione di uno spettacolo e il totale degli spettatori che in quel momento hanno la TV accesa. Di tutti, alcuni.
L’audience è invece il numero medio di spettatori di una trasmissione ed è un dato che, se si pensa alla quantità di canali e programmi esistenti, conta davvero poco.
Lo sharing (condivisione) nei social network è una cosa completamente diversa, più completa. È una condivisione passiva (impression) e attiva (share) al tempo stesso perché il destinatario di un post, commentandolo, likandolo o condividendolo, può diventarne mittente.
L’utente quindi diventa medium del medium. Non è roba da poco essere medium! Inoltre l’impression (imprinting) non dipende dal momento in cui il post viene effettuato, ma si frammenta nei diversi momenti di connessione o di attenzione degli utenti “amici” o “fan” che siano.
Lo sharing del social abbatte la dimensione spazio-tempo.
Ma tutto questo è molto affascinante. Quello che mi turba dei social, specialmente di Facebook, è che la maggior parte degli utenti dimentichino completamente di essere medium. Forse non l’hanno mai saputo.
Spinti dall’impulso del dover comunicare, ignorano che quel “mi piace” o quel “condividi” in quel momento sta pubblicizzando quel qualcosa e sta fornendo dati statistici.
Più che ignoranza c’è molta ingenuità a riguardo. L’inarrestabile desiderio di partecipazione rende l’uomo un animale narcisisticamente sociale e questo vale per tutti gli uomini.
Su alcuni quotidiani online, vicino all’articolo c’è un pulsantino con scritto “condividilo prima dei tuoi amici”. Fior fior di psicologi sanno benissimo quanto la condivisione renda artefice e quindi soddisfi l’ego dell’utente. Se la TV è stata specchio per narcisi, il social network è l’apoteosi, un labirinto di specchi. Io condivido dunque sono. Se condivido la foto di un quadro di Warhol, divento anch’io Warhol (e so che lui sarebbe felice di sentirmelo dire!). È una cosa che penso spesso: Warhol oggi dovrebbe andare in psicanalisi per dipendenza da social network, ne sono sicuro!
Non so quanto sia corretto esporsi durante un’analisi del genere, però devo dirlo. Io non mi reputo un animale sociale, non mi piacciono i branchi. Potrei stare in silenzio per un mese e senza ambire un dialogo, preferisco la natura all’uomo. In poche parole mi faccio molto i fatti miei. Quindi ancor di più non capisco come si possa postare su Facebook dieci, venti o trenta post al giorno parlando della propria vita privata o dei propri pensieri. Proprio non riesco a darmi una risposta. Mi fa paura. È un voyeurismo, esibizionismo, ma con i vestiti. È solo ossessivo.
L’oversharing, l’eccesso di condivisione, è di fatto classificata come malattia mentale legata all’egocentrismo cronico.
“Ho cucinato. Ho mangiato. Ho cagato. Ho pensato. Sentite questa! Leggete qua. Guardate. Ho sbattuto. L’ho lasciata. L’ho comprato. Ho mangiato bene. Ci vediamo là? L’avete visto? Ho fame”. Il tutto moltiplicato per 365 giorni l’anno.
Ma chi se ne frega?
E invece no. C’è a chi interessa. Non sono solo gli “spioni” che vivono dei fatti altrui, sono gli adepti, il branco, i fedelissimi. Quegli utenti identificano nel capobranco il medium per raggiungere la perfezione sociale. Grazie al medium si sentono parte di una comunità in cui credono, grazie al medium alimentano quella parte di sé che altrimenti sarebbe arida. Ma questa è una realtà preesistente che con il social network si è solo amplificata. Se il capobranco ride, loro condividono e ridono tanto da strapparsi le corde vocali. Se il capobranco è arrabbiato, loro (condividono) distruggono tutto. Se il capobranco dice qualcosa di filosofico o poetico o fotografano un oggetto che stanno adoperando o un cibo che stanno mangiando o un panorama, loro condividono il post diffondendo il verbo.
Con i social network il rapporto tra branco e capobranco è più coeso, anzi si è letteralmente cementato. È stato abbattuto il muro spazio-tempo che vigeva nell’era offline. La condivisione diventa reciproca, istantanea, speculare e costantemente rituale. E come tutti i rituali diventa dipendenza.
Ma chi dipende da chi? Si potrebbe pensare che pianeti e satelliti gravitino intorno al sole per assorbirne luce e vita. Senza il sole… nisba. In realtà è il sole il capobranco, è il capoccia il vero dipendente dalla condivisione. Senza satelliti e pianeti non avrebbe motivo di splendere. Se gli spettatori non condividessero i suoi sentimenti, allora l’ego crollerebbe nel silenzio stampa. L’altitudine della punta di piramide dipende unicamente dall’intera struttura. Sembra una banalità ma il mio vuol essere un consiglio per tutti coloro che magari vedono questi micro-vip facebookiani come miti, come grandi personalità possessori di karma, charme e grandi capacità. In realtà molti di loro lo sono, hanno grandi capacità comunicative ma sono persone molto deboli che cercano di continuo conferme per sentirsi vivi. Sono vampiri che si nutrono della vitalità altrui. In realtà, come nella miglior filosofia blues, sono persone che si circondano di persone per svariati motivi. Il social network è uno strumento di comunicazione, non di masturbazione. Anche in quel caso, come sempre, meglio non abusarne…
I twittatori criticano moltissimo i facebookiani per il loro lobotomizzato “mi piace” o “non mi piace” mentre descrivono se stessi come geni della comunicazione. Secondo me ogni strumento va usato per quello che è. Sarebbe interessante intervistare qualche mega-vip che abusa di Twitter per venire a scoprire che a un certo punto non ce l’ha fatta più e ha dovuto prendere un twittatore apposito per portare avanti il progetto.
Twitter, praticamente, nasce dal sentimento di oversharing di Facebook ma questo è un altro paio di maniche.