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Paco de Luna - Primo quadro TeleCittà 1

Da Gianbarly
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TeleCittà
L'Antonia avanzava con la sua falcata caratteristica lungo l'ampio corridoio centrale. Aveva un corpo snello, slanciato, che avrebbe potuto farla sembrare bella se non fosse stato per la faccia, caratterizzata da denti leggermente irregolari e decisamente sporgenti, che le davano una imbarazzante sembianza equina. Portava una massa disordinata di capelli crespi, perennemente in movimento. Da come li esibiva si capiva che lei ne era molto fiera. A dispetto della realtà, si considerava una bella donna.
Era molto attiva. Non c’era cosa che non passasse da lei. Era lei che mi aveva fatto il colloquio, il giorno dell’assunzione. Lei mi aveva indicato il posto dove mettere le mie cose. A lei bisognava far riferimento per qualsiasi richiesta.
Andava su e giù per l'enorme stanzone sprizzando un'inossidabile fiducia nel fascino che pensava di emanare. Percorreva instancabile gli spazi fra i vari box facendo ticchettare incessantemente gli alti tacchi. E lo faceva guardandosi continuamente intorno, in modo da dare ancor più movimento ai suoi capelli, pensando di cogliere ammirazione negli sguardi che intercettava.
Ora era immobile nel punto d’incrocio dei due grandi corridoi centrali. Si era fermata a parlare con Maria. Parlavano spesso fra di loro. Ogni volta che si incrociavano allungavano le teste fino quasi a farle toccare e cominciavano a parlare fitto fitto, abbassando talmente il tono da rendere vano ogni tentativo di capire cosa stessero dicendo. Lo sguardo grave, le due fronti attraversate da solchi di preoccupazione ci rendevano edotti dell’importanza di quei conciliaboli. In realtà si capiva benissimo che avevano l’abitudine di commentare ogni cosa. Ogni dettaglio della vita della Televisione veniva passato al setaccio, ogni novità sezionata con cura.
Ero li da abbastanza tempo da esserci abituato. Ci davo giusto un’occhiata, più per abitudine che altro. La scena si ripeteva diverse volte nell’arco della giornata, annacquando la suspance di un colloquio che, nelle loro intenzioni, avrebbe potuto avere conseguenze capitali per il futuro di tutti noi.
In quel momento arrivò Anna Maria. Al contrario delle altre due era piuttosto piccola di statura, minuta nel corpo e con il viso affilato. Vestiva in maniera sobria, ma elegante. Si vedeva che sceglieva con cura i capi da indossare e che era attenta ad ogni particolare.
Due occhi chiari e vivacissimi davano luce all’insieme. Aveva uno sguardo diretto ed intenso, in grado di perforarti in una frazione di secondo.
Al contrario dell’Antonia, si alzava di rado dalla sua postazione, situata strategicamente all’angolo a destra dell’ingresso dell’open space. Lo faceva quando voleva controllare di persona una certa cosa, o quando, come in questo caso, voleva rapidamente comunicare alle altre due una sua decisione. Di norma succedeva poi che l’Antonia partisse immediatamente con la sua cavalcata per spargere il verbo dove si doveva.
Mi fermai un attimo ad osservarle. Erano tutte e tre ferme a parlare fra di loro, a cerchio, con le spalle rivolte all’esterno. Lo spazio che le separava dalle scrivanie sottolineava il distacco che c’era con gli altri. La luce proveniente dai finestroni del capannone le illuminava perfettamente.
“Le Tre Grazie!” commentai fra me, ma a voce abbastanza alta.
Giuliana, dalla scrivania accanto, alzò la testa guardandomi divertita; poi guardò loro e ripeté
“Le Tre Grazie!”.
Rivolta ad un altro impiegato disse ancora
“Ehi! Franchino le ha chiamate Le Tre Grazie!”
La frase si sparse in un baleno, fra sussurri e risatine, e, da quel momento, furono, per tutti, “Le Tre Grazie” e io ebbi il mio piccolo momento di gloria.

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