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Giovanni Campi - Babbeleoteca minuta

Da Ellisse


Giovanni Campi - Babbeleoteca minuta, un libro che non c'è (ancora)Giovanni Campi - Babbeleoteca minuta

Chi è il Signore (con la esse maiuscola) costante protagonista di questa Babbeleoteca minuta di Giovanni Campi? Forse lo stesso che questa Babbele punitiva ha scatenato e di cui Campi si è intestato il diritto di fare da portavoce. Forse un Ente superiore che è lecito mettere in mora, che dubita ed è dubitato, che magari poi si scopre non tanto superiore, che nemmeno vale la pena di bestemmiare perché, alla fin fine, è come noi una pedina di un gioco più complesso, una maschera di una rappresentazione. Un Signore (a volte signore, con la esse minuscola, che forse è  altro) destinatario di domande a cui per lo più è incapace di rispondere. Anzi a volte il Signore risponde con un'altra domanda, piuttosto scortesemente. Un Signore (o forse signore) che non sa, esattamente, dove sta e nemmeno se è. Un Signore che parla spesso in francese, con qualche leziosità e qualche compiacimento dall'aria salottiera, ma è una cosa che si può capire perché forse è uno che ha letto Debord ("È vero, forse, che il vero sia sempre vero? ed è falso, forse, che il falso sia sempre falso? Non è forse vero che il vero, talvolta, sia anche falso? o è forse falso? Non è forse vero che il falso, talvolta, sia anche vero? o è forse falso?"). Oppure, perché no?, il Jabès de "Il libro delle interrogazioni". Un Signore che forse ha la esse maiuscola solo perché Campi è una persona educata, un tipo vecchio stampo. Ma mi rendo conto mentre scrivo che se vado avanti così finisco col fare il gioco di Giovanni. Soprattutto per la semplice ragione che mi pare di aver descritto fino a qui caratteristiche che sono applicabili - io credo - a qualunque essere umano. Quindi: il Signore (e i suoi deuteragonisti) siamo noi? E' probabile. Ma nello stesso tempo è personaggio sufficientemente "alto" da poterlo rovesciare con un discreto fracasso. A  cominciare dalla sua entrata in scena, nel primo testo, che mette in scena la sua stessa fucilazione. Il Campi evangelista, dunque, si esprime per parabole. E il suo gioco, mosso principalmente con l'ironia di chi crede di aver scoperto le ironiche vacationes della lingua, sia le sue sospensioni che le sue buche, tende ad uno spiazzamento di chi legge, alla messa in discussione di meccanismi, soprattutto sintattici, altrimenti razionali ("normali" e normati) erodendo le fondamenta di un senso comune che si rivela illusorio. Il quesito, l'interrogazione (magari un po' zen: "se senza suono ― quale il suono del senzasuono?"), anche quando posti non espressamente come tali, riguardano soprattutto la parvenza del mondo reale, così come descritto dal linguaggio. Siamo sicuri, sembra dire Campi, che le cose siano così come appaiono? Io stesso, dice lui, vi costringo ad inseguire un senso che però non sono sicuro di possedere, o che è affidato in gran parte alla deviazione, anche casuale, del medesimo dal percorso ordinario. Babele quindi non è solo, canonicamente, incomunicabilità, o meglio lo è,  ma non tanto nel senso che non si può comunicare, piuttosto in quello che si può (si ha la facoltà di) fra-intendere. Cosa che, da un punto di vista poetico, è densa di significati. E il mondo immaginario, non dissimile da quello reale, mentre da una parte ci dà una chance di capire qualcosa, dall'altra ci prende anch'esso bellamente in giro. Un mondo peraltro molto astratto, poco oggettuale, metafisico, surreale, con poche "cose" dentro, ossimorico, contraddittorio, assertivo e negativo allo stesso tempo. E affascinante perché condensa gli elementi e li sposta, proprio come secondo Freud fanno i sogni. Siamo tra Calvino e Borges ("Il Signore, la sua dimora era una e piú città: un labirinto, di pietra, di pietra su pietra in pareti, e voci da;..."), e quindi è come se si fosse da nessuna parte, dato che il territorio intermedio, una sorta di deserto dei Tartari, è sconfinato. Potremmo anche cercare altri confini, come un Michaux del sud o un Beckett del nord ma la questione non cambierebbe di molto. In realtà questo territorio è davvero sconfinato, stante la tendenziale illimitatezza della immaginazione (di Campi in questo caso) applicata al linguaggio, cioè a qualcosa che è insieme rigido e  parecchio manipolabile. Un libro (che ancora libro non è) che è un'opera aperta, ma non nel senso che intendeva parecchi anni fa U. Eco, ed è un'opera "scrivibile", ma non nel senso barthesiano. E' semmai un libro che "si scrive" e che è tuttora aperto a sviluppi che forse nemmeno Campi è in grado di prevedere. Mi dice infatti Giovanni: "queste sono le prosette che mi si stanno scrivendo, le prime sedici vennero premiate al mazzacurati-russo ma per dissidj con l'editrice non si è mai fatto il volumetto che pur mi spettava, le altre si sono succedute nel tempo, sono a 45 delle cento che mi ripromisi di scrivere nell'ormai lontano 2008...".  Un libro che avrebbe potuto avere la sua conclusione, ma che invece si ritrova ad essere un lavoro in corso, che procede secondo uno schema collaudato entro il quale Campi si sente a suo agio. Già ne L'irragionevole prova del nove (o forse prima, non lo so) il meccanismo si era messo in moto dando chiaramente l'impressione di non volersi fermare tanto presto. E' in effetti un modulo poetico-narrativo efficiente, potenzialmente riproducibile ad libitum,   e quindi  di una serialità molto moderna, che corrisponde ad una sensibilità "tecnica" attuale, ma nel quale Campi  ha il pregio di innestare  una speculazione invece antica, un gioco e una dialettica che possiamo tranquillamente definire filosofici. Se c'è un problema in questo tipo di scrittura (prosa in prosa? postpoesia? vai a sapere...) è semmai quello di scivolare in una sorta di automanierismo, in un loop stilistico/concettuale che mi è capitato di segnalare altre volte. Ma come tutti i rischi se lo conosci lo eviti. E Campi ha tutti i mezzi e le competenze per farlo. (g.c.)

fuzzy

“Ce que je sais, je le sais.”

“Ce que je ne sais pas, je ne le sais pas” - disse il Signore.

Il signore era entrato in una città. A dire il vero, sempre che sia possibile dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità, o dirne almeno una senza violar leggi o principî, siano quelli della ragione o d'una ragionevole follia, siano quegli altri della logica o d'una logica contraddizione, siano infine quegli altri ancora della identità o d'una identica differenza, non era propriamente una città, quella in cui il signore era entrato, ma ne erano due: dunque il signore era entrato in due città. E questa, la verità. Al che, chiunque avrebbe mosso, quale legittima obiezione, il dire inverso l'inesistenza d'una tale improbabilità: come avrebbe potuto, il signore, entrare al contempo in due città? come avrebbe potuto, un signore qualunque, fare una cosa del genere? O entrava in una città, si diceva, o nell'altra. Ma il fatto è che invece il signore era entrato in due città. E cosí stanno le cose. E cosí i fatti.

“Ô babylone!”

“Ô babel!”

le message

Era sera, e il Signore a quello pensava; era una qualunque sera, ma, se pure fosse stato giorno, un giorno qualunque, nulla sarebbe mutato, il Signore sempre a quello pensava: “il n’y a rien de nouveau sous le soleil, ni sous la lune”.

“Non c'è altra alternativa: si è come obbligati a dare una risposta” – disse una voce.

Come se potessero esserci risposte. Come se potessero esserci alternative ad esse.

“Potrebbe anche essere che si abbia e vi sia altro, come una sorta d'alternanza, ma pur sempre senza alternative: non c'è dunque che una sola possibilità di risposta, che non ci sono risposte. Non si hanno scelte, se non forzate: si è come condannati, si è come forzati.”

Come se potessero esserci scelte. Come se potessero esserci scelte da scegliere. Da fare.

“Si è stati scelti. Si è sempre scelti, in modo misterioso, enigmatico.”

“Dovete aprire la porta, e poi richiuderla: si ha bisogno della chiave, e poi di gettarla: cosí vuole la legge, questa è la legge.”

Venne aperta la porta, che non era chiusa a chiave, e il signore poté in fine vedere: dinanzi a sé c’era come un riflesso, anzi, piú riflessi, come da specchî infiniti, e una luce tenebrosa, che tutto oscurava, e una tenebra lucente, che tutto illuminava; e scale ovunque, e ogni scala terminava con una porta, e ogni porta era forse anche il principio di un’altra scala, ulteriore.

“Non c'è piú bisogno della chiave, e forse mai ce n'è stato bisogno: la porta è aperta, forse lo è stata da sempre. ”

D’un'altra eternità fino al'eternità, per lui, e solo per lui, giusto o ingiusto che sia, puro o impuro, nel bene o nel male, la porta era aperta.

“Ce qui fu, cela sera; ce qui s’est fait, se refera.”

condamnesia maudite coll’age

“Il nome!” – fu chiesto esclamando al Signore.

“Un nome o tutti i nomi?” – rispose domandando il signore.

Il signore, condannato ad un’amnesia del proprio nome, se ne inventava altri. Legato ad una catena senza anello di congiunzione di tra l’uno e l’altro anello, pensava al tempo trascorso e a quello da trascorrere come eternità senza coeternità: ogni istante era tutti gli istanti e nessuno, ogni nome era tutti i nomi e nessuno, ogni lingua era tutte le lingue e nessuna. Ogni persona era tutte le persone e nessuna. Ecco, forse la singolarità era che non si trattava di singolarità ma di pluralità, e tuttavia scissa, a ché si perdessero per sempre le tracce di sé, come improvvide impronte improvvise su di un solido nulla, ed anzi a ché ciascuno non fosse che una traccia di nulla, come d’un passo che non lasci impronta, bianco inchiostro su di un bianco foglio, o nero su nero senza graffio alcuno, senza nulla da graffiare, né da scorticare.

“Metta nero su bianco: non mi racconti storie!” – la voce del padre eterno diceva al signore.

Come se si potessero raccontar storie senza metter nero su bianco, se pur d’una storia senza storie, o d’un racconto senza racconto.

“Ma è niente, anzi è meno che niente, se ora non dice tutta la verità” – continuava la voce.

Come se si potesse dire tutta la verità: la verità era che non c’era verità.

“Annunciamo la sua morte, signore” – decretò la voce del superno giudice supremo.

E non c’era una parola, una parola soltanto, che potesse salvarlo, né lui, né egli, né chi altro o altri fosse stato, e neanche se quell’unica parola fosse stata tutte le parole.

Forse in un tempo senza tempo, e in un luogo senza luogo, c’era la parola in luogo d’una parola: la parola cui non necessitavano altre parole, il verbo senza verbo, il modo senza modo, il nodo senza nodo d’ogni anello mancante, e presente: imperfetto o piú che perfetto che sia congiunto all’infinito non essere essere stato essere.

fior di l'oti & d'i dioti

"Chi sa che? chi sa perché?" - in coro il coro chiese al Signore, "Lei sa, si dice, Lei sa chi e che, e perché – nevvero?" - proseguí il coro, e ancora in coro: - "Lei sa qualcosa, si dice: ci dica!"

Come se fosse possibile sapere, come se fosse possibile sapere qualcosa, e non piuttosto niente; come se fosse possibile essere a conoscenza d'un che o d'un perché, o di venirne a sapere qualcosa: è forse possibile sapere qualcosa di qual si sia cosa, e non piuttosto niente? è forse possibile essere o addivenire a conoscenza di chi? chi questo chi, se non nessuno? e dire, poi! come se fosse possibile dire, o dire soltanto qualcosa, di chi questo chi, o di quello, sempre che sia qualcuno e non nessuno: è forse possibile dire, se pure soltanto qualcosa, e non piuttosto niente, di qualcuno, se nessuno?

"I fatti! si limiti ai fatti, non ci racconti storie, ci dica per ora come è andata."

Come se esistessero fatti, o come se esistessero fatti che si sian fatti, e non solo e soltanto fatti disfatti, e allora come interpretare questa parte, se senza parte alcuna, o questa storia, se senza storia alcuna, e senza nemmanco la possibilità d'un racconto? e dire che dire su come andata, poi! per ora, poi! come se esistesse qualcosa che sia andata, o qualcuno, andato: tutto, tutto è andato, via! e tutti, tutti andati, via, e senza ritorno: tutto senza ritorno, via! non c'è ritorno, no, né via: non c'è via d'uscita, no, non c'è uscita, alcuna, né piú via d'entrata, no, non c'è entrata, alcuna.

Il signore, la sua dimora era un deserto, un labirinto di nulla, un nulla di fatto, senza niente sopra, senza niente sotto. Non cielo, né terra, ove indovarsi.

"Non c'è piú tempo, il suo tempo è scaduto, è volto al termine."

Ma se non c'è tempo, non ce n'era, né ci sarà? C'era un tempo, prima? ci sarà un tempo, dopo? volgersi al termine è forse rivolgersi al termine? e quale? quale termine, quale parola, per dire che finite le parole, e le cose tutte? non essendoci termine, non c'è limite, né fine? non c'è fine, no, né fine alla fine: forse allora, tutto, tutto questo nulla, tutto questo nulla di allora, di ora, di poi, tutto è senza fine? tutto questo nulla, e quello con questo, è infinito?

"Non ricorda?"

Il signore, ogni suo ricordo era come senza ricordo, ogni suo passo una traccia di nulla, ma infinito, ma infinita. Il signore, ogni suo cammino si dispiegava come in nuove pieghe, ma di nulla, ma infinite, ma infinito.

purimpuro mondimmondo

Il signore, non si sa come, né perché, la sua dimora era non una, ma due città: la superna & l'inferna. L'una delle due, non si sa quale, era la città senza niente sopra; l'altra, - non sapendo l'una quale delle due, nemmanco quest'altra si sa, - la città senza niente sotto. Quel che si sa è che nient'altro si sa di queste due città, se non che il signore le dimorava amendue insieme.

"Lei mente!" - fu detto al Signore.

Come se fosse possibile dire la menzogna, o una menzogna soltanto. Come se fosse possibile dire la menzogna, o una soltanto, e non la verità – una qualsiasi, una qualunque.

"La verità, la sua verità! la sua verità è una menzogna."

E quale la verità, allora? e quale la menzogna? ogni verità d'allora è forse una menzogna di ora, e poi? esiste, è esistita, esisterà, una verità vera, una falsa menzogna? esisterà, è esistita, esiste una verità falsa, una vera menzogna?

Se la città senza niente sopra fosse stata la superna, per esempio, al di sotto d'essa – cosa? forse le cose tutte, e con esse il mondo? se cosí le cose, il mondo, posto supposto al di sotto della città superna, la quale si immagina essere pura, sarà per ciò men puro, impuro, quasi un mondo immondo? e se invece la città fosse stata l'inferna? ecco, ecco che allora tutto, tutto sarebbe solo e soltanto inferno – nient'altro che inferno. Ma, al di sotto d'essa, d'esso, cosa? forse le cose tutte, e con esse il mondo? se cosí le cose, il mondo, posto supposto al di sotto della città inferna, la quale si immagina essere impura, sarà per ciò vieppiú impuro, quasi un assoluto mondo immondo, una pura impurità, un inferno ancor piú infernale?

Se la città senza niente sotto fosse stata l'inferna, per esempio, al di sopra di essa – cosa? forse le cose tutte, e con esse il mondo? se cosí le cose, il mondo, posto supposto al di si sopra della città inferna, la quale si immagina essere impura, sarà per ciò meno impuro, quasi un non immondo mondo? e se invece la città fosse stata la superna? ecco, ecco che allora tutto, tutto sarebbe solo e soltanto paradiso – nient'altro che paradiso. Ma, al di sopra d'essa, d'esso, cosa? forse le cose tutte, e con esse il mondo? se cosí le cose, il mondo, posto supposto al di sopra della città superna, la quale si immagina essere pura, sarà per ciò vieppiú puro, quasi un assoluto non immondo mondo, una pura purità, un mondo paradisiaco ancor piú del paradiso?

Il signore, la sua dimora essendo insieme la città superna e l'inferna, sempre che l'una fosse stata quella senza niente sotto e l'altra quella senza niente sopra, per lui tutto, tutto sarebbe stato insieme inferno e paradiso.

s'ogni
Il Signore forse sognava forse vegliava.
Ai quattro lati delle città senza niente sopra e senza niente sotto c'erano delle porte, le quali aprivano o chiudevano, aprivano e chiudevano, al niente di nuovo: ognuna di esse – identica era, in tutto, alle altre, e insieme in tutto differente da, a seconda dei punti di vista dell'apparenza o dell'evidenza.
Ai quattro angoli delle città suddette c'erano delle scale, le quali salivano o scendevano, salivano e scendevano, verso il niente di nuovo: ognuna di esse scale, sí come ognuna delle porte, era, in tutto e insieme, alle altre identica e differente da, a seconda dei punti di vista del sogno o della veglia.
Se aperte, le porte, lo erano verso l'esterno della città, delle città, o verso l'interno? e se chiuse, si era dentro o fuori la città, le città?
Se insuse, le scale, lo erano verso, come dire, il cielo della città, delle città, e verso d'essa e d'esse l'abisso se ingiuse? e se in vece le insuse fossero state tali da essere discese, e ascese l'ingiuse? si era al di sopra o al di sotto della città e delle città senza niente sopra e senza niente sotto?
Se in sogno, l'apparenza delle porte e delle scale era evidente, come una sorta di rivelazione, ma ancora ignota; e viceversa d'esse l'evidenza, se in veglia, apparente, a rivelare ― cosa, se non il niente di nuovo? cosa, se non di nuovo il niente di nuovo, quasi che la veglia non fosse altro che per la morte?
A volte però accade, è  accaduto, accadrà, in sogno l'evidenza e l'apparenza in veglia: il signore era come dinnanzi a sé stesso: sognava, ed era sognato; vegliava, ed era vegliato.
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