Per uno come me che non ha frequentazioni con il mondo delle religioni, delle varie divinità e ritualità che lo riguardano, provoca un certo imbarazzo dovere costatare che il Padre nostro rappresenta una delle preghiere più ricche di significato sociale e di potenzialità politiche, anche se né l’uno né le altre hanno a che fare con il mondo esclusivamente terreno nel quale trovano posto e significato. L’imbarazzo consiste nell’occuparsi della materia che di solito non fa parte degli interessi di un laico. Si potrebbe fare la storia di duemila anni di civiltà del nostro mondo occidentale, solo attraverso l’iconografia del Padre e di come sia stato visto da tutti: pittori, poeti, vertici di potere e di comando della nostra sfera religiosa, o gente comune che ne ha tratto forse altri segni, altre letture e prospettive.
Il Padre Nostro è, comunque, la preghiera più diffusa. Fa parte della vita dei cristiani e dei cattolici e, in qualche punto, coincide con le preghiere di molte altre religioni che, dalla loro origine, hanno sempre previsto, l’esistenza di un Padre comune, capace di essere il punto di riferimento di tutti gli esseri umani, sia nei momenti della gioia, sia anche in quelli del dolore. Il Padre nostro ha avuto una sua valenza di conforto e di speranza ed è stato, per chi lo ha fatto proprio, una fonte di ottimismo.
Dobbiamo dire, tuttavia, che non sempre il Padre nostro, così come è ora invocato, è stato tale. Cioè punto ineludibile del cristianesimo e del cattolicesimo universale. C’è stato un lungo periodo della storia di queste religioni monoteistiche, in cui il Padre ha rappresentato la separatezza, il riferimento di una casta di potenti, il Cristo delle cattedrali e della forza. Delle guerre, delle crociate, e del grido di odio per le altre religioni. Basti pensare agli ebrei o ai musulmani, e a tutte quelle religioni orientali che hanno avuto altre concezioni religiose rispetto a quelle occidentali, o anche al loro interno.
Fu Giovanni XXIII a trasformare la nozione del Padre in una forza collettiva ecumenica, consentendo al cosiddetto popolo di impossessarsene, trasformandola in una nuova palingenesi, in una vera e propria rivoluzione sociale e di comunità.
Le due parole, infatti, racchiudono due concetti laici, molto terreni: Padre, una figura che è parte integrante della struttura familiare, propria della storia degli esseri umani, e nostro, uno degli aggettivi più semplici usato per indicare una condivisione. La combinazione del nome con l’aggettivo ha una sua efficacia straordinaria perché fa del nome un soggetto centrale vicino che spiega le sue migliori caratteristiche: non di essere escludente, ma di essere includente. In questo soggetto si uniscono tutti e nessuno può rimanere escluso.
Le prime due parole del Padre Nostro indicano perciò la natura e la funzione del Padre unico, con un suo ordine per tutti: che nessuno può tirarsi fuori dall’essere figlio, o inventarsi immaginari di emarginazione. Le opportunità sono pari per tutti in quanto il Padre fa del genere umano il fondamento dell’uguaglianza, della confluenza di tutte le culture, di tutti gli usi e di tutte le tradizioni. Nel rivolgerci a lui non possiamo dire “Padre dei cattolici o dei cristiani”. Nelle versioni di Matteo e di Luca che ci riferiscono di questa preghiera, c’è il completamento degli aspetti spirituali (Luca) e di insegnamento alle masse che seguivano la predicazione di Cristo (Matteo). Entrambi, però, sembrano sottolineare come persino gli apostoli vivevano il loro rapporto con Cristo come un’esperienza irripetibile e intima. E nello stesso tempo non distinguibile dal popolo che a lui si riferiva, i fedeli.
L’accettazione del Padre e del senso della comunità costituisce la prima istanza della preghiera. Su questa poggia il luogo in cui si colloca il Padre. Non sta in Terra, ma nei cieli. Una costante che è segnata da tutta l’impostazione storica che lo riguarda. Chi pensa al Padre guarda sempre verso l’alto, perché è impossibile che lo trovi nelle cose di questo mondo, tutte corruttibili. Lo guarda dal basso, da un terreno definibile e ingannevole. In alto non lo vediamo in una figura, ma in quello che realmente possiamo percepire con i sensi: le stelle, la luna, il sole, le nuvole, l’alba, l’aurora, il tramonto, l’infinito e l’indefinibile. E ancora oltre. E’ l’assoluto della lontananza e della profondità degli universi. E’ energia assoluta. Evidente il forte contrasto tra l’elemento cosmico e quello meramente terrestre, tra l’inafferrabile e il palpabile. Ma il contrasto è solo apparente se si pensa, che la divinità, stando a buona parte della filosofia occidentale, da Spinoza a Berkeley e via dicendo, è anche su questa Terra, nella natura, in ciascuno di noi. Bakunin si era fatta una ragione della nostra schiavitù per la collocazione nei cieli di Dio. Ma nulla esclude la divinità onnipresente in questo mondo, nonostante le sue degenerazioni, le sue guerre, o l’essere, lo stesso uomo, homini lupus.
Come ci suggerisce Sereno Dolci, nelle culture orientali, Namasté è il particolare saluto che si usa per definire la “Divinitá in Te”, con il significato pure “che Dio esiste in ciascuna-o di noi..e non solo in cielo”. Una versione molto più vicina a spiegare la razionalità delle cose, visto che il Padre per la sua relazione con il nostro mondo, sacrifica il proprio figlio per salvarlo. E’ conseguente, quindi, che il suo nome debba essere santificato e che il suo Regno debba venire nella prospettiva della salvezza.
Altro elemento centrale del Padre Nostro è la realizzazione della sua volontà. Questa, di solito, è associata ad un evento negativo. Come a dire: nulla è possibile fare contro la volontà di Dio perché tutto ciò che accade ha una sua finalità prevista che nessuno può ostacolare. A me pare, al contrario, che la realizzazione della volontà del Padre nei confronti degli uomini, abbia una sua forza vitale e positiva intrinseca, costante, come un flusso di energia continuo, un impulso allo sviluppo e al benessere che gli uomini potrebbero ostacolare. Perciò la volontà che si attua in un divenire continuo può essere interpretata da alcuni come la manzoniana realizzazione della Provvidenza, da altri, e più ragionevolmente, come il motore generale dell’energia interiore delle cose. La riscontriamo nell’universo come nel filo d’erba, nell’ammalato come in tutte le manifestazioni dell’uomo, anche se questi raramente se ne rende conto.
A questa parte teologica della preghiera si aggiunge poi quella più terrena e materiale: la richiesta del pane quotidiano, il perdono necessario alla convivenza, con l’esperienza del perdonare, prima di essere perdonati, l’essere tenuti fuori dall’impossibilità di dominare gli impulsi primordiali, cioè le tentazioni dell’avere che fanno smarrire il senso dell’essere, le tendenze verso il male prodotto dell’anima maligna dell’uomo, la liberazione da questa realtà perversa.
Come si vede ci troviamo di fronte a una preghiera che è anche una condotta utile di vita. Antica saggezza millenaria da cui l’Occidente si è tenuto costantemente lontano. Ecco perché, oltre al folclore, siamo ancora all’inizio di un percorso di costruzione di un mondo nuovo.
gc
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