Ovvero, perché il femminismo dovrebbe occuparsi di precarietà.
Siamo andate a Paestum con l’intenzione di portare lì quelle che per noi sono le urgenze che il femminismo dovrebbe affrontare (qui la nostra intervista). Siamo andate a portarle a quelle donne che la rivoluzione l’hanno fatta davvero e che quindi hanno un bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche indispensabili, a nostro avviso, per poter far fronte a questa crisi, la nostra crisi.
Quando parliamo di precarietà, parliamo di un problema più che di genere, generazionale. Coinvolge donne e uomini. Perché allora il femminismo dovrebbe farsene carico? Perché il femminismo è lotta per la libertà delle donne, libertà dai condizionamenti sociali. E se c’è una cosa che condiziona drasticamente le nostre vite, che le determina e definisce, è proprio il fatto di non avere alcuna sicurezza in campo economico e lavorativo. Non siamo libere di fare figli o di non farli. Non siamo libere di sposarci o meno. Le scelte sia nell’uno che nell’altro senso sono sempre imposte. Io, ad esempio, non vorrei avere figli. Ma sinceramente non so se questa mia scelta sia davvero totalmente libera. Probabilmente se avessi maggiori certezze sul piano lavorativo, ci rifletterei di più. Non siamo nemmeno libere di pensare alle nostre vite, come vite fatte di diverse possibilità.
La precarietà come condizione lavorativa non lascia spazi di libertà. Non li lascia perché non ti dà la possibilità di scegliere fra varie opportunità di vita, ma non li lascia neanche perché impegna totalmente la tua esistenza. Quando non sai se domani lavorerai oppure no, non hai il tempo per riflettere su altro. La condizione di precarietà riempie i giorni della nostra vita. La nostra vita viene a identificarsi con la vita lavorativa. Ma noi non siamo solo il nostro lavoro. Noi vogliamo essere anche altro, vogliamo avere la possibilità di fare e di pensare ad altro. Senza di questo, non c’è nessuna libertà. Primum vivere.