Oggi abbiamo discusso di Paestum a Reggio Emilia, invitate da Cgil e 6Donna. Abbiamo accettato volentieri l’invito: ci sembrava importante condividere con altre donne – la maggior parte delle quali non aveva potuto partecipare a Paestum – quell’esperienza di forza femminile. Abbiamo preso il treno per Reggio sapendo bene che non avevamo nessun titolo per parlare ‘a nome di’ Paestum 2012: “ci sono almeno 800 Paestum diverse”, l’abbiamo detto subito. Per questo il nostro desiderio, andando verso l’appuntamento, era quello di incontrare le donne di Reggio Emilia, ascoltarle, raccontare loro ciò che avevamo portato fino a Paestum e ciò che avevamo portato indietro con noi.
Due sono state le cose che abbiamo voluto mettere a tema: precarietà e giovani generazioni. Per quanto riguarda il primo tema, abbiamo provato a condividere la nostra idea di precariato come questione di cui il femminismo deve farsi carico, in quanto forma di violenza che colpisce le donne in maniera particolare. La disparità salariale, le dimissioni in bianco, la possibilità di una gravidanza sono tutti fattori che rendono la precarizzazione delle donne più violenta di quella degli uomini. Abbiamo perciò definito il precariato come una delle forme di violenza sulle donne. Il femminismo, che si batte per la libertà delle donne, non può prescindere dalla loro autonomia materiale come presupposto di qualunque altra loro libertà. Il tema del precariato, perciò, non è affatto neutro, bensì profondamente sessuato. I percorsi individuali delle donne in cerca della propria autonomia devono fare i conti con questa realtà materiale: il precariato femminile è più violento, più diffuso, socialmente più accettato.
Nel giardino della sede Cgil di Reggio Emilia
Per quanto riguarda il secondo tema, abbiamo fatto presente noi giovani non lo siamo più. Abbiamo più di trent’anni. Definire un over-30 come “giovane” significa – anche se, lo capiamo, in totale buona fede – operare una delegittimazione da un lato e una rimozione dall’altro. La delegittimazione consiste nel depotenziare le rivendicazioni politiche e sociali di tutte queste donne, che invece sono nel pieno della loro maturità e dovrebbero essere piuttosto percepite, e definite, come adulte e perciò, in questo senso, pienamente titolari dei propri diritti. Dall’altro lato, definire giovani chi ha 30 anni significa anche rimuovere un’intera generazione, quella cioè di chi oggi ha 20 anni, o anche meno, e che è completamente assente da qualunque considerazione politica. Prendere atto di questa assenza significa anche interrogarsi sul proprio operato e sulle modalità per raggiungere chi al tempo dell’11 settembre aveva 7 anni, si affacciava ai suoi 14 quando la crisi ha avuto inizio ed è nato e cresciuto sotto il ventennio berlusconiano.
Riguardo a quest’ultimo tema è emerso dalla discussione che i giovani (quelli veri) si percepiscono come “persone” tout court, come un gruppo omogeneo di coetanei, dimostrando così scarsa coscienza di genere.
D’altro lato, le madri sono consapevoli che la loro fatica quotidiana è percepita dai figlie e soprattutto dalle figlie e di come perciò non possano rappresentare un modello appettibile, sfinite come sono nel tentativo di barcamenarsi nelle tre dimensione fondamentali della loro vita lavorativa, relazionale e politica.
In conclusione, è emersa la necessità di confrontarsi ancora sul tema della precarietà, così poco discusso nonostante la sua centralità. Siamo state molto felici della calda accoglienza di Carla, Ramona, Piera, Clelia, Carmen, Milla, Lorenza, Susanna, Angela… e tutte le altre che ci hanno ascoltato e che abbiamo avuto il piacere di ascoltare con partecipazione. Come diceva Lea Melandri in conclusione dei lavori a Paestum, il dopo-Paestum dipende da noi.