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La storia, notissima, è quella di una gelosia fulminante. Tonio (baritono), pagliaccio deforme, presenta a mo' di prologo quest'intreccio di sentimenti tutti umani, di brame d'amore e di possesso, e poi funge da tramite nel porre le basi per il verificarsi della tragedia. Invaghito di Nedda (soprano), non ne ottiene i favori del corpo e la sottomissione, e si vendica - novello Jago, rispetto all'Otello verdiano, di soli cinque anni prima - accusando la tresca della donna con Silvio (anch'egli baritono) al marito Canio (tenore). La commedia che si terrà in scena sarà dunque attraversata da tensioni reali, anche se lo sviluppo sarà diverso.
In effetti, il legame con l'Otello - di Shakespeare, prima ancora che di Rossini o di Verdi - è spaventoso, anche sul piano teorico. Il prologo di Tonio, manifesto verista in musica, esplicita alcuni temi di una modernità sconcertante nella consapevolezza del fare teatro: ne è un esempio la ripresa di strutture più tradizionali, già in disuso e poi riutilizzate con una coscienza netta della frattura rispetto al significato originario. Il teatro epico brechtiano e Strehler verranno molto dopo (ma spiegheranno la ripresa incontenibile - e secondo me ingiustificabile - dell'opera di Leoncavallo). Quello che troviamo qui è una debolezza dell'anima, una fragilità emotiva, e insieme un carico intellettuale per certi versi insostenibile su questi esseri umani, infiacchiti - piuttosto che rinvigoriti - dalle loro passioni. D'altra parte, se Massimo Bontempelli aveva ragione nel descrivere il tenore verdiano attraverso il piglio cavalleresco del teatro di figura, qui abbiamo caratteri in crisi, modelli di spettacolo in un momento di tragico trapasso. La commedia è finita, conclude Tonio, perché la commedia è impossibile, non resta che il vivere come tragedia.
Pagliacci è un'opera fosca, un'opera a programma di una trasparenza che oggi può anche sembrare imbarazzante, ma che in piena età pirandelliana merita un posto di rilievo nella drammaturgia del nostro Ottocento, che come ben sappiamo è drammaturgia in musica. In questo senso, Pagliacci di Leoncavallo è da ascrivere al nostro miglior teatro di mestiere ed è spiegabile l'emozione che ancor oggi suscitano Vesti la giubba o il duetto di Silvio e Nedda (E allor perché, di', tu m'hai stregato) o ancora il No! Pagliaccio non son conclusivo. Fanno parte di un mood, uno stato d'animo che si comprende e ci portiamo dentro, perché l'archetipo shakespeariano, prima ancora che rossiniano o verdiano, di Otello è patrimonio del nostro teatro e del nostro modo di rappresentare i sentimenti, anche nella sua declinazione tardo-ottocentesca, così diversa.
L'edizione che ho visto io oggi pomeriggio è una delle molte dirette da Riccardo Muti alla guida dell'Orchestra e del Coro del Teatro Comunale di Bologna (sulla base dell'edizione critica di Giacomo Zani). Lo spettacolo, registrato al Teatro Dante Alighieri di Ravenna, è firmato da Liliana Cavani, sia per la regia teatrale che per quella cinematografica, e dalle coreografie di Micha van Hoecke. Data l'assoluta refrattarietà del mio animo a questa musica, mi limito a segnalare gli interpreti, per dovere di cronaca: Placido Domingo (a mio parere un po' sopra le righe, nonostante tutto) è Canio; Svetla Vassileva (a suo agio nella pantomima della commedia dell'arte) è Nedda; Juan Pons è il crudele Tonio; Francesco Piccoli è un Silvio appassionato, mentre Pietro Spagnoli un Beppe che funziona bene. Aspetto con impazienza di poter amare anche la musica di Pagliacci e di penetrare in questa regione - chissà perché - a me così estranea dell'opera.
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