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"Palace of the End" di Judith Thompson, impressioni di lettura
Creato il 18 novembre 2010 da SulromanzoPalace of the End (NEO. Edizioni) e i pregiudizi
Dopo alcune parti di ieri, oggi le mie impressioni di lettura; il rischio di affrontare “Palace of the End” di Judith Thompson prevenuti è forte, la prefazione di Maria Anita Stefanelli, pur essendo chiara e precisa, non aiuta a indebolire il pregiudizio, due sono le domande che sorgono ancor prima di iniziare a leggere il testo: è un fazioso libro politico? Riuscirò a giungere all’ultima parola?
Inizio con il primo monologo, Le mie piramidi, so che i fatti sono reali, così dichiara l’autrice nella nota introduttiva, mentre la caratterizzazione delle persone è fittizia. Uhm, mi dico. Lynndie England è la soldatessa americana condannata per le sevizie inflitte ai prigionieri iracheni ad Abu Ghraib, non si trova dolcezza dopo poche righe: “Annega la troia nell’acido, dovrebbe essere incaprettata, cazzo quant’è brutta me la inculerei è la donna più brutta che ho mai visto annega la cagna nell’acido sarebbe meglio tagliarle la testa e scoparmi il suo buco del collo, rifilala a un fottuto imbecille, è troppo brutta è robaccia bianca del West Virginia!”. Spalanco gli occhi. Torno a rileggere la frase. Non sono per nulla convinto di continuare. Decido di non demordere. Thompson rincara la dose, anche lei non demorde. Una crudezza che di rado ho incontrato in un testo. Le parole non entrano nella mente, si conficcano con violenza. Eppure emergono pensieri intimi inaspettati che relazionano la consapevolezza del corpo e la brama di essere protagonisti per la propria nazione e le allucinazioni/visioni che incuneano male nel bene, il diavolo nell’angelo. Scagliarsi contro il mondo idealizzando azioni e pensieri, degradare a stato di vergogna un certo femminismo, impadronirsi di virilità cruenta per estorcere informazioni ai prigionieri; percepire un singolo destino come il destino d’un Paese. Un probabile complesso di inferiorità che diviene provocazione continua, anche se gli scheletri nell’armadio si palesano pagina dopo pagina.
Passo al secondo monologo, Harrowdown Hill, i drammi d’un microbiologo esplodono uno a uno, dai sospetti lavorativi alla visione della morte, a “sapere e fingere di non sapere per non essere disturbati in alcun modo”. La complicità di chi non agisce, conoscere che cosa sta accadendo nello stesso edificio e non muovere un dito per evitare atroci torture a una bimba. Perdere il lavoro? La pensione? No, bisogna continuare. E allora si mente, in primo luogo a se stessi. Perché la vanità in tempi di guerra può tornare utile, può donare un’aura di guru per qualche argomento, là fuori ci sarà sempre qualcuno disposto a sentirti. E la figlia di un amico del luogo, una tredicenne graziosa ma ancora bambina, dopo avere isolato il padre, la madre e il loro piccolo figlio nella cantina e avergli sparato, affrontata dai quattro soldati americani… alla fine, le sparano in faccia. Sono stanco di spalancare gli occhi, deglutendo. Perché la verità deve emergere, la gente deve sapere.
Il terzo monologo, Gli strumenti della Bramosia, comincio a leggerlo con una lena imprevista, i pregiudizi hanno concesso spazio all’ansia, e l’ansia al desiderio di fagocitare le parole di Thompson. Oramai sono fregato, andare avanti con la lettura è ineluttabile. Nehrjas è una donna irachena che riflette e racconta, parla di un grave peccato commesso, parla della potenza dell’amore di Dio, parla della sua anima e della sua fede riscoperta, parla di Saddam Hussein. L’Iraq libero, gli iracheni liberi. Certo, dal dittatore, ma non dalla furia di certe bestie straniere che ti liberano e ti stuprano al medesimo tempo: “Inutile dire che fui violentata molte volte di fronte a mio figlio. Lo costringevano a guardare ma lui non vide nulla”. Poi prendono anche il figlio più piccolo, solo otto anni, gli impongono di guardare...
Ricordate la mia prima domanda? Sì, è un libro che parla anche di politica, fazioso? Se prendere la parte degli oppressi è fazioso, sì, allora è fazioso. Sono riuscito a giungere all’ultima parola? Certamente, travolto dalle parole di Palace of the End. E ora ho il desiderio di vedere il testo in un teatro. Se volete brividi, brividi veri, ora sapete quale libro cercare.
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