Chuck Palahniuk (classe 1962), autore ormai stagionato, in virtù di una prolificità senza sosta, che ha conosciuto esiti di altissima rilevanza (artistica e commerciale) e altri un po’ più incerti e zoppicanti. La stagione del glorioso esordio (Fight Club, Survivor) è ormai passata da una quindicina d’anni, ma il gaio ragazzone di Portland continua a macinare pagine su pagine del suo stile minimalista e crudo, satirico e cannibale, concedendosi anche sporadiche sperimentazioni tecnico-narrative.
Ultimamente il nostro sembra parecchio interessato alla mimesi del linguaggio, come si intuisce dalla lettura di opere come Pygmy (2009) e il nuovissimo Dannazione.
In entrambi i casi abbiamo due giovani protagonisti, le cui gesta rocambolesche vengono raccontate direttamente in prima persona, con un vocabolario e uno stile narrativo rispettivamente ricalcati sul linguaggio di un ipotetico immigrato e di una prototipica teenager americana.
Già, perché Madison Spencer, protagonista di Dannazione, ha tutte quante le caratteristiche della perfetta adolescente a stelle strisce, a parte il piccolo particolare di essere morta e condannata a scontare l’eternità all’Inferno.
Attenzione però, siamo in un romanzo di Palahniuk, e logicamente l’Inferno finisce per essere non molto diverso dalla vita di tutti i giorni, o meglio, una grande allegoria che livella la vita e la morte, traendo la conclusione definitiva che la serenità (e, teologicamente, la salvezza) faccia rima con accettazione, di se stessi, dei propri limiti, paure, errori, vizi e virtù. Riconoscersi e conoscersi, perdonare se stessi per la colpa di essere se stessi.Il resto è il solito cinico e grottesco divertissement made in Palahniuk, che in questo caso omaggia l’inevitabile Dante, il padre putativo Bukowski, la dark fantasy di Neil Gaiman e l’ispirazione teenager oltremondana di Alice Sebold.
Il solito Chuck, che, ancora una volta, coi suoi pregi e i suoi limiti, porta comunque sempre a casa la sufficienza. Prendere o lasciare.
Io prendo.