Non c’è la ferocia disperata dei suoi migliori libri che lasciava i lettori contusi ma felici, come avveniva per i partecipanti al “Fight Club”. Ci sono pochissime invenzioni narrative in 180 pagine di noia che acuiscono la sensazione che “Senza veli” sarebbe stato migliore come racconto che come romanzo. Palahniuk da alcuni anni sembra afflitto dalla sindrome del mediocre scrittore: ogni qualvolta ha uno spunto autoriale, lo declina prontamente in un romanzo come se avesse paura di smarrirlo. Anche se laureato in giornalismo (all’Università dell’Oregon nel 1986) sembra non aver fatto propria la principale lezione della stampa: la selezione delle notizie. Nel caso della letteratura, mutatis mutandis, si potrebbe far riferimento a una cernita di idee che nell’ultima produzione dell’autore è assente. Ritornando concretamente sul romanzo, lo stillicidio di nomi della vecchia Hollywood, trascritti in neretto come nei giornali scandalistici, sarebbe stata una buona trovata nella sua brevità; ma, diluita nelle forme di un romanzo, risulta tutt’al più uno stucchevole sfoggio di cultura cinematografica, oltre che un rallentamento borioso del ritmo. Risulta priva di sorprese e anche di simpatia, la megalomane Lillian Hellmann, personaggio realmente esistito, autrice teatrale e moglie del giallista Dashiell Hammett. Le ripetute esagerazioni delle imprese della Hellmann e le stilnovistiche descrizioni dei mirabolanti rapporti sessuali tra Webster e Katherine fungono da facili paraventi stilistici per nascondere l’esilità di una trama talmente esigua da rasentare il dilettantismo. Il colpo di scena finale è così prevedibile che non telefona nemmeno, fa uno squillo. Avesse fatto a meno della solita struttura thriller, Palahniuk avrebbe potuto migliorare alcuni aspetti marginali. La felice invenzione dei was-band (intraducibile gioco di parole per indicare gli ex-mariti della protagonista, che saggiamente viene lasciato così) poteva essere ampliata, senza limitarsi alla gradevolezza linguistica. Palahniuk impiega peraltro ben 80 pagine prima di ricordarsi della sua proverbiale cattiveria, quando descrive con l’abrasività che gli è congeniale “l’audizione” dei neonati che Katherine Kenton compie per scegliere un marmocchio il cui colore della pelle si adatti alla tonalità di vernice della casa. Ma è purtroppo un momento isolato in mezzo a molta sciatteria. Viene allora anche voglia di rimpiangere l’onanistico esercizio di stile che era “Gang Bang” e l’altrettanto compiaciuto sperimentalismo di “Pigmeo”. È da poco uscito nelle librerie il suo nuovo lavoro… che sia “Dannazione” a poterlo salvare dalla dannazione letteraria in cui si è cacciato?
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