Sicuramente è un fallimento che rischia di riportare i rapporti tra Israele da una parte e l’Egitto e i palestinesi dall’altra a trent’anni fa: a prima che Sadat firmasse lo storico accordo di Camp David del 1979 con la quale suggellava la pace con lo Stato ebraico.
Un rischio concreto, per l’incapacità americana di gestire il processo «rivoluzionario» egiziano; processo che ha portato al potere forze ostili (I Fratelli Musulmani) sia agli Stati Uniti, sia a Israele e sia agli storici accordi firmati per il processo di pace palestinese. Un’incapacità determinata dalla politica di Obama, il quale – americano dalla nascita o no – si rivela sempre di più un presidente di plastica o da social network, che un vero presidente della nazione più potente del mondo.
Lo dimostra il bidone diplomatico che gli hanno riservato gli egiziani del nuovo corso fondamentalista e i palestinesi. Non solo non lo hanno coinvolto nelle trattative diplomatiche che hanno suggellato gli accordi tra le forze presenti nei territori occupati e in Cisgiordania – Hamas (fondamentalista) da una parte e Fatah (moderato) dall’altra – ma lo hanno persino «deriso», non prevedendo negli accordi il «riconoscimento di Israele» ed escludendo perciò qualsiasi negoziato con lo Stato ebraico, che anzi è visto come il solito nemico da abbattere. E Israele si ritrova a questo punto un vecchio nemico in più. L’Egitto.
Eppure tutto ciò era assai prevedibile. La caduta di Mubarak non è stata certo espressione di un movimento democratico, ma è stato il tentativo (ben) riuscito di rafforzare il fondamentalismo islamico e le forze ostili a Israele nella regione. E sul punto non si può certo escludere lo zampino dell’Iran integralista, unito all’incapacità lampante dell’amministrazione USA di leggere nella rivoluzione egiziana una pericolosa degenerazione estremistica e fortemente anti-ebraica. Alla quale v’è pure ad aggiungere l’inefficacia dell’influenza degli Stati Uniti anche sui processi decisionali israeliani, che con Netanyau hanno proseguito con le politiche di colonizzazione ebraiche che tanto fanno incazzare i palestinesi.
Insomma, Medioriente-USA: 2 a 0. Non c’è storia, grazie al «Nobel» per la Pace. Che anziché fare il Bush della situazione, ha continuato imperterrito a sorridere e a dire «Yes, we can». Ma «Yes, we can» di cosa? Guardiamo un attimo alla situazione mediorientale e facciamoci due conticini.
Negli ultimi anni la situazione mediorientale è nettamente peggiorata. Caduto Saddam Hussein, l’Iraq oggi rischia di diventare un satellite dell’Iran. È pur vero che i dittatori non possono restare al potere per sempre, ma è anche vero che se si deve estirpare il male, lo si estirpa alla radice. E invece la realtà è un’altra: Saddam è caduto, ma resta in piedi il regime degli Yatollah, che da Teheran muovono i loro burattini a Baghdad. Più vicino al Mediterraneo, cade Mubarak in Egitto, altro dittatore, ma vicino all’Occidente. Gli USA appoggiano la «rivoluzione» che giudicano una gran prova di democrazia, salvo poi vedersi salire al potere un’organizzazione anti-americana, anti-israeliana e anti-occidentale. Sostenuta e benedetta indovinate da chi? Ma sempre da loro: gli iraniani. E cosa fanno gli egiziani del nuovo corso pro-Palestina? Estromettono gli USA dai processi di pace in medioriente, e rimarcano – alla faccia della pace – che Israele non ha diritto di esistere e che qualsiasi processo di pacificazione non può prescindere dalla sua cancellazione. Il che rischia concretamente di innescare la scintilla che potrebbe far esplodere la pericolosa polveriera mediorientale.
Complimenti agli Stati Uniti, che sotto sotto iniziano a rimpiangere Bush. E non si tratta di una banale questione su un certificato di nascita…
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Palestina: l'accordo Hamas-Fatah e il fallimento della politica USA
Creato il 29 aprile 2011 da IljesterPossono interessarti anche questi articoli :
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