La Palestina all’ONU: finalmente Stato?
Il voto con cui, il 29 novembre scorso, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato l’ammissione della Palestina quale Stato osservatore, ha generato una serie di commenti non solo sulle ricadute geopolitiche dell’evento, ma altresì in ordine ai profili giuridico-istituzionali di una scelta che autorevoli analisi hanno definito in realtà “un upgrading”1. In effetti, nel corso dei 65 anni esatti che separano i fatti in questione dalla data in cui l’ONU aveva proposto che il Mandato britannico venisse diviso tra uno Stato arabo e uno Stato ebraico (con l’epilogo che tutti conosciamo), la Palestina aveva già ottenuto lo status di osservatore. Nel 1974, infatti, l’OLP di Arafat aveva conquistato la possibilità di intervenire, benché con le limitazioni del caso, all’Assemblea Generale, in virtù del riconoscimento del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Tale diritto viene oggi qualificato come principio consuetudinario, anche se trova spazio in numerose fonti convenzionali, ed è stato usato in varie occasioni per riconoscere soggettività giuridica di diritto internazionale ai movimenti di liberazione nazionale, quali l’OLP appunto, anche se con sede all’estero. Successivamente, nel 1988, l’OLP aveva proclamato la Palestina quale Stato indipendente nei territori occupati da Israele nel 1967 e pertanto lo status di osservatore presso l’AG dell’ONU era transitato nominativamente dall’OLP alla Palestina, senza però che ciò ne comportasse il riconoscimento quale Stato.
Il salto di qualità ottenuto con il voto di alcuni giorni fa attiene precisamente il riconoscimento della natura statuale della Palestina, peraltro da parte di una larga maggioranza della comunità internazionale rappresentata all’ONU (ben 138 voti favorevoli a fronte di 9 contrari e 41 astenuti). In quanto Stato osservatore non membro, infatti, la Palestina continua a non poter esercitare il diritto di voto in assemblea, a non potere firmare proposte di risoluzione o sponsorizzare candidature, pur godendo fin dal 1988 di una serie di facoltà aggiuntive ad essa riservate. E tuttavia prestigiosi commentatori si sono domandati che cosa consenta oggi di differenziare, sul piano del diritto internazionale, la Palestina dalla Santa Sede (altro Stato osservatore non membro), alimentando il sospetto che il voto dell’AG traduca più motivazioni “retorico-diplomatiche” che non fondate ragioni giuridiche2.
Ciò che fa la differenza
Se parte della dottrina dubita della soggettività della Palestina, ciò è dovuto al fatto che, come sopra ricordato, tale soggettività è ricollegabile essenzialmente al diritto di autodeterminazione del popolo palestinese; dunque, si tratterebbe di una soggettività internazionale limitata (come peraltro riconosciuto anche da una sentenza italiana3) e in un certo senso funzionale al perseguimento dello scopo stesso di autodeterminarsi in uno Stato, che sembra però costituire ancora piuttosto un’aspirazione che non una realtà.
In effetti, secondo un’impostazione largamente condivisa tra gli studiosi, gli elementi costitutivi di uno Stato vengono tradizionalmente individuati nel territorio (elemento spaziale), nel popolo (elemento personale) e nel governo (elemento organizzativo). Il territorio, quale dimensione spaziale di esercizio della sovranità dello Stato, rappresenta nel caso che ci occupa una ferita aperta della vicenda palestinese. Vengono così in rilievo non solo i profili di criticità attinenti il problema dei confini dei territori rivendicati (tuttora contesi), ma altresì la frammentazione degli stessi, nonché le rivalità interne al popolo palestinese, in particolare tra Hamas e Fatah, per cui al momento sarebbe obiettivamente difficile persino riconoscere una sovranità omogenea su Gaza e Cisgiordania, con palesi ricadute anche sull’elemento organizzativo. E’ stato acutamente osservato come, del resto, «il popolo palestinese è lungi dal formare una nazione»4, forse generando qualche perplessità anche in ordine al requisito personale per come andato evolvendosi nel corso degli anni.
Anche qualora sussistessero gli elementi costitutivi dello Stato, tuttavia, residuerebbe da vagliare se la Palestina possa vantare, ai fini dell’acquisto della soggettività internazionale dello Stato medesimo, gli ulteriori requisiti dell’effettività e dell’indipendenza, così come richiesto dalla migliore dottrina5. L’effettività (o sovranità interna) consiste nella capacità dello Stato di esercitare concretamente il proprio potere in relazione a un determinato popolo in un determinato territorio. L’indipendenza traduce invece il concetto di sovranità esterna, cioè il fatto che la sovranità di uno Stato non dipenda da un altro Stato. In punto di sovranità interna, emergerebbe perciò come un tragico ossimoro la vicenda dei c.d. territori occupati, anche perché in Cisgiordania vivono coloni israeliani che sarebbe arduo considerare come sottoposti alla sovranità palestinese. Proprio a seguito del voto di novembre, inoltre, Israele ha minacciato nuovi insediamenti, così confermando come la effettività del governo palestinese su quei territori sia fortemente compromessa. Analogamente, si potrebbe osservare che il blocco navale imposto da Israele alla Striscia di Gaza ormai da diversi anni di fatto esclude che la Palestina eserciti la propria sovranità sulle acque territoriali, le quali pure rientrano nella nozione di territorio di uno Stato. D’altro canto, l’ANP (Autorità nazionale palestinese) nasce in seguito agli accordi di Oslo del 1993, che sono stati da taluno assimilati piuttosto agli accordi conclusi dalle potenze coloniali all’epoca della decolonizzazione, proprio «al fine di provvedere al graduale avvio all’indipendenza dei territori dominati»6. In questo modo, anche il requisito della sovranità esterna verrebbe perciò a vacillare.
Lo “status di Stato” è sufficiente?
Premessa una simile lettura, ciò non toglie che il voto dell’Assemblea Generale dell’ONU consenta ora potenzialmente alla Palestina di avvalersi di una serie di facoltà ad essa prima precluse. Tuttavia, permane lo scetticismo di coloro che ritengono che quanto accaduto il 29 novembre scorso non muti la realtà sostanziale della situazione e corrisponda piuttosto ad un cinico e multiforme interesse verso il mantenimento dello status quo. Secondo questo approccio, cui abbiamo già accennato, il popolo palestinese in primis non costituirebbe una vera e propria nazione in grado di reclamare un proprio Stato7 e ciò implicherebbe l’impossibilità di immaginare una soluzione in merito al problema del territorio (e quindi dei confini) e della sovranità.
Il riconoscimento di uno Stato, del resto, dovrebbe avere valore dichiarativo, secondo l’orientamento prevalente. Nel caso della Palestina, invece, l’impressione è per certi aspetti nel senso che il voto dell’Assemblea Generale abbia assunto un valore costitutivo della natura statuale di una realtà geopolitica altrimenti ancora relegata al rango di “entità”. Sembrano muovere in questa direzione anche le preventive limitazioni cui si è tentato di condizionare il voto favorevole di alcuni membri dell’AG (ad esempio l’Italia), quasi a dimostrare che fosse possibile creare sì un nuovo Stato, ma a sovranità limitata, secondo l’interesse degli altri Stati membri. In questa ipotesi, al di là dei significati più strettamente politici, l’aver promosso la Palestina a Stato osservatore non membro pare sottolinearne piuttosto la fragilità istituzionale e l’inconsistenza statuale, anche perché l’iniziativa per indurre a tale riconoscimento è stata promossa dal Presidente dell’ANP, Mahmud Abbas, il cui schieramento in seno alla compagine palestinese ha perso autorevolezza e potere a vantaggio di Hamas e pertanto rappresenterebbe più una fazione che un popolo.
In questa cornice, pare difficile riconoscere non soltanto i presupposti, ma altresì le prospettive di un vero Stato palestinese.