PALETTI E NUVOLE
Dedicato alla lunga strada della mia vita.
Non sopporto i paletti l’ho scoperto da poco ma un tempo la mia vita era piena di paletti, ne innalzavo ovunque. Paletti erano intorno ai rapporti umani, ai miei gusti, ai miei pensieri, alle mie paure e ai ricordi. È che li innalzavo senza curarmi di lasciare un varco attraverso cui passare; li innalzavo restandoci fuori privandomi della possibilità di avere accesso all’unica proprietà privata in cui credo, la mia anima e vietando a me stessa di essere davvero me stessa. Issavo paletti con fatica e restavo passivamente a guardare la mia anima gridare tutto il suo dolore, chiedere con forza di liberarsi sebbene avesse terrore di quel che avrebbe trovato. Si affacciava, annusava l’aria come un animale e poi tornava a nascondersi spaventata. Dai paletti si sentiva tenuta prigioniera ma protetta.
Ho sempre amato le case senza alcuna recinzione, gli spazi aperti, le stanze grandi, l’immensità del cielo, i lunghi viaggi su strade vuote che giungono in quel magico luogo dove il cielo abbraccia la terra. Adoro guardare il cielo, le nuvole che formano figure in perenne trasformazione, gli uccelli volare, gli aerei. Chissà quanti pensieri transitano sulle sconfinate strade nel cielo, su quegli aerei… Forse le loro scie sono proprio i pensieri dei passeggeri e tanto più questi sono importanti quanto più persistono nei cieli. Sogno spesso di volare, ma non seduta sul sedile di un aereo. Sogno di camminare sollevandomi da terra percorrendo grandi distanze senza posarmi al suolo, leggera e senza paura. Sogno di guardare la mia strada dall’alto, di annusarne l’odore di asfalto bagnato o di scorgerne il riflesso nelle caldissime giornate di Agosto, o ancora di cercare di afferrarne i rossi papaveri lungo i bordi. Grandi passi iniziali per poi sollevarmi e raggiungere la mia destinazione senza più nessuna difficoltà, finalmente libera.
Ma se potessi volare sarei in grado di lasciare i miei pensieri per sempre lassù? Sarei in grado di lasciarli andare sapendo che facendolo incontrerebbero le nuvole e queste non mi restituirebbero più conigli bianchi o trenini, ma spaventose nuvole nere?
Una nuvola nera a forma di casa dentro cui attendere la Morte. Quanta protezione può dare la casa?
È una meravigliosa giornata di inizio primavera oggi. Il tiepido sole illumina la stanza rosa di mia figlia, la finestra è aperta e le tende svolazzano leggermente per la corrente. Il piumone appoggiato sul davanzale distribuisce cuori variopinti nell’orto sotto casa, gli uccellini cantano nella fortunata quiete del nostro quartiere. Sebbene l’ora del pranzo sia lontana qualcuno sta già cucinando, pare. Vedo il profumo di soffritto passarmi rapidamente davanti, lo inseguo chiudendo gli occhi e arrivo in cucina. È indaffarata la donna che lo sta preparando. Accanto al fornello, su un piccolo ripiano un apriscatole e una scatoletta di pelati, dello zucchero, un dado, uno strofinaccio. Dietro di lei un piccolo tavolo, una ciotola, delle uova, farina, una macchina per la pasta già fissata al bordo. Senza nemmeno chiedere permesso comincio a girare per casa, le stanze da letto hanno le finestre aperte i letti sono disfatti, i cuscini sul davanzale appoggiati sopra le vecchie coperte. Gli armadi leggermente aperti per far circolare aria all’interno. Tutto è in ordine. Il cestello della lavatrice gira piano. Ascolta musica l’anziana signora indaffarata, musica che arriva direttamente dalle lunghe e tortuose strade del suo passato. I suoi pensieri, li posso vedere. Pensa alle occasioni perse, alle lacrime versate, agli aiuti non ricevuti, ai segreti da mantenere, ai figli da crescere senza la forza di abbracciarli. Il suo occhi si rattristano ” Non rattristarti, è passato” provo a dirle ma lei non può sentirmi. Mi appoggio al muro e la guardo togliere pezzi di pasta dal grosso panetto per poi passarli nella macchina. Depone la lunga sfoglia passata e ripassata per renderla liscia e regolare. Passa ad un altro pezzo di pasta con estrema sicurezza e rapidità. Cambia musica nella stanza e il sole torna sul suo viso. Un rumore lontano attrae la mia attenzione, lo squillo di un telefono. Cerco di non prestarvi attenzione perché non voglio andarmene da lì; la voglio guardare ancora; voglio odorare ancora il profumo del soffritto, voglio guardarla appoggiare le sfoglie pronte pronte per farne tagliatelle, voglio guardarla mentre si asciuga le mani nodose nel grembiule. Non voglio andarmene, mi aggrappo al profumo ma si dissolve tra le mie mani e lo squillo del telefono mi riporta violentemente sulla mia strada togliendomi il respiro per pochi istanti fino a quando scorgo delle luci in lontananza.
Mi piace guardare le finestre delle case lontane, quelle in cui posso fantasticare su cosa vi sia all’interno, quelle in cui vedi la luce di una lampada, di una candela o di un albero di Natale. Solo così posso immaginare le forme di vita al loro interno: sorrisi , lacrime, una pentola sul fuoco, mani che ricamano, che pettinano una bambola, che accarezzano, una televisione accesa, legna crepitante in un camino, un presepe, una monetina vicino al telefono, chiavi e vecchie poltrone consunte. Questi sono i soli rapporti che so mantenere, con chi è dentro quelle finestre, che non sa che ci sono, che non chiede e a cui non devo. È che poi qualcuno si accorge di me e talvolta mi invita ad avvicinarmi. Mi tende una mano, mi fa un sorriso, mi porge una sedia: “accomodati…”. No, non voglio quella mano, non credo a quel sorriso, non mi voglio sedere. Una mano tesa a volte vìola i lembi di pelle solo accostati , non più grondanti sangue. Il sangue ricomincia a uscire caldo rigandoti le guance e ti senti vorticare in mezzo a luci, porte, mani, paure, odori, colori proteggendo con le mani il corpo affinché non ti colpiscano più.
Mi colpisce la luce di quella lampada da comodino e la lampadina al suo interno esplode lasciandomi al buio, vago a tentoni nel buio e cerco una mano che mi aiuti ma la mano è fredda e io la lascio, ne ho paura. Una figura adulta di riferimento, alcolista, violenta, abusante. Una bambina guarda la sua vita alzando paletti restandoci fuori per non ascoltarsi. Una donna li divelle e vede se stessa fondersi con quella bambina e per molto tempo una nebbia impedisce di distinguerle nitidamente.
Vorrei vivere in un bosco, lì ci sono alberi che hanno le loro radici ben salde nel terreno. Le loro fronde ricordano grandi mani che possono accarezzarti, proteggerti, prenderti e portarti in alto vicino al cielo. Se ti portano in alto puoi scorgere il cielo e a me il cielo piace, puoi vedere la luce del sole, le nuvole, le tempeste, l’arcobaleno. Corrono rapide le nuvole e non puoi scorgerne una uguale a un’altra proprio come guardare le immagini all’interno di un caleidoscopio. Costruiva caleidoscopi con i frammenti di vetrate colorate. Guardare le figure all’interno che cambiavano mi emozionava e speravo di poter incontrare qualcosa di già visto ma gli impercettibili movimenti delle mani muovevano il magico cilindro e non accadeva mai. Nessuna immagine vista si ripresentava ai miei occhi. Le figure cambiavano in continuazione, bastava quell’impercettibile movimento della mano:” Guarda…” ma era già cambiata. Non dava alcuna certezza il caleidoscopio, non potevo condividere la gioia di una visione, conservavo gelosamente nei miei occhi il ricordo di quelle geometrie colorate e poliedriche. Sapevo mantenere variopinti segreti e grazie alle lignee recinzioni anche dolorosi segreti, mi distaccavo da essi e restavo a guardarli come se facessero parte della vita di altri. Ora non esistono vincoli ma di quanto dolore si sono cibati durante il loro innalzamento e la loro rimozione? Quella bambina è libera ora, se n’è andata anche se la scorgo ogni tanto dietro un angolo che spia i miei movimenti,non le parlo e lei se ne va triste. Ho distrutto quei paletti e ora non so se riuscirei a sopportarne più di nuovi, di costruiti da altri, non vorrei che qualcuno me ne innalzasse intorno. La “me stessa” che guardava con paura la sua anima ora finalmente conosce le due dimensioni e non vorrebbe che vi fosse più alcuna divisione. La “me stessa” liberata e liberatrice vorrebbe potersi muovere senza che esistesse più un dentro e un fuori. La “me stessa” liberata e liberatrice sa però che non sarà davvero libera per sempre. Solo la morte potrà concedere quel tipo di libertà, La “me stessa” liberata e liberatrice costruirà altri muri, forse, ma avendo cura di lasciare uno spiraglio che le permetterà di viaggiare sulla sconfinata strada che porta nel punto esatto dove il cielo abbraccia la terra.