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Poi passiamo al resto, ché già comprendere che stiamo parlando di un cinema sì intelligente e imprevedibile come quello danese, ma da cui tutto ci aspetteremmo tranne che una storia di speroni, cactus e cavalli, bhé, che dire, è una sorpresa mica da poco. Invece The Salvation è una bella scommessa, quasi interamente riuscita. Se il canovaccio ricalca in maniera corretta i canoni tradizionali evocando modelli facilmente riconoscibili (questo, semmai, diventa a lungo andare un limite, ma ci ritorniamo), il film si guarda bene dal gigioneggiare e anzi, fa decisamente sul serio: semina, e, per sommi capi, raccoglie i suoi bei frutti.
Dietro la macchina da presa c'è Kristian Levring, un ex della (famigerata?) banda di Dogma 95, quella setta anarco-cinematografica capeggiata da Lars Von Trier. Di lui abbiamo visto in Italia Il re è vivo e Quando verrà la pioggia, fantasiosi drammoni non disprezzabili dove il talento, anche a dispetto di personali idiosincrasie di che scrive verso quella tipologia di opere, s'intuiva con una certa evidenza.Qui la storia, americanissima e al contempo europea, s'impernia sulle tragiche vicissitudini di Jon, pacato danese immigrato nell’America dei canyons e degli sceriffi. Ma anche terra dei tagliagole senza legge e dei fuorilegge senza Dio. Uno di questi bellicosi esemplari, Delarue, vessa il villaggio presso cui Jon vive col fratello Peter, imponendo un tributo sempre più esoso. Le vicende del buon protagonista e del perfido Delarue si congiungono a seguito di una sconvolgente tragedia, che li porterà a ritrovarsi l’un contro l’altro armati, con esiti fatali per i cattivoni e qualche lutto insanabile per chi parteggia per il bene.
A incarnare l’uomo qualsiasi trascinato nel gorgo della violenza non di sua sponte, c’è un Mads Mikkelsen in forma smagliante che dipinge con tratti minuziosi un (ennesimo) ritratto umano di grande impatto emotivo. Senza mai indulgere a facili esasperazioni drammatiche - e la trama non è certo priva di spunti in tal senso -, l'attore scandinavo costruisce il suo Jon grazie a un meticoloso lavoro di sottrazione espressiva che ne conferma la bravura. Ma è nella personificazione del villain che l'appassionato del genere trova le maggiori soddisfazioni, per merito di un baffuto ed efficacissimo Jeffrey Dean Morgan,incarnazione pressoché perfetta di una nazione avida e spietata, gli USA, che dai migranti che ne costruirono le fondamenta pretese tutto di prepotenza, senza mai nulla concedere in cambio.Fermo restante la goduria per un lungometraggio assai ben congegnato, si arriva però alla conclusione del film faticando a non ammettere che ci si sarebbe aspettati qualcosina in più. Ad esempio, per dire, che The Salvation giocasse a scardinare a proprio piacimento il genere, magari con note provocatorie e qualche ribaltamento di prospettiva non previsto; e invece Levring dà vita al più classico dei racconti di vendetta, confezionando quello che è in tutto e per tutto un bell'omaggio (Leone, Peckinpah) che rischia però di perdersi nel mare magnum di prodotti consimili (oltreoceano i western sono ancora pane quotidiano, magari per le tante cable tv).
L'unica caratteristica innovativa di The Salvation, semmai, la si può identificare nella riflessione (molto ben mimetizzata nella trama, però) che ingenera la consapevolezza di quanto sangue sia servito a edificare la nazione più potente del mondo. E non è certo un caso che Jon, al contrario di tanti eroi di frontiera di wayniana memoria, non accetti l’etichetta di salvatore e non si appropri mai di battaglie non sue: egli lavora e combatte per sé stesso e per la propria famiglia (vale la pena ricordare l’eccellente prova di Mikael Persbrandt nel ruolo del leale fratello Peter). L’eroismo di Jon è quindi completamente casuale, forzato, individuale e, per questo, profondamente moderno. In definitiva, un film da non perdere, ma siamo ben lontani da quel restyling pop che seppe fare nei Sessanta il genio nostrano con la medesima materia.
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