È quasi tutto troppo con Shakespeare. E Romeo e Giulietta ha persino un troppo in più. È un’opera così famosa che è impossibile sfuggire al già visto.
[Valerio Binasco - Romeo e Giulietta - Note di regia]
Mi pare di aver capito che nei confronti delle opere Shakespeariane prevalga quest’atteggiamento: siccome sono famose, siccome sono trite e ritrite e i versi sono oggetto di merchandising (io pure c’ho la tazza con la frase di Giulietta per il mio medita-tè pomeridiano
Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?
- in genere è un assassino- ) e di continue citazioni anche da parte di chi non ha idea cosa stia parlando, allora bisogna per forza dar loro una specie di ammodernamento, infilarle in una nuova ambientazione, una sorta di cambio di abito e di trucco e parrucco forzato perché i tempi corrono, le parrucche non vanno più da un pezzo, la cipria ora va scelta in base al colore dell’incarnato, gli occhiali da vista sono un accessorio moda, le donne mostrano persino le ginocchia, la biancheria intima non strappa, non stringe non stressa, è in atto la rivincita dei capelli corti e, soprattutto, il vecchio puzza di vecchio.
Qualche anno fa mi capitò di vedere un adattamento de La Tempesta ambientato in una camera piena di giocattoli anziché su di un’isola. E Ariel, lo spirito dell’aria, era un tizio nudo (e dove dico nudo intendo nudo) che ad un certo punto veniva appeso (nudo) per le caviglie e, sollevato (nudo) a mezz’aria, oscillava pericolosamente assieme alle sue grazie (nude). Non è che io sia puritana, se il resto dello spettacolo fosse stata una degna rappresentazione della storia originale, seppur rivisitata, avrei potuto glissare: l’impressione (sia quella immediatamente successiva che quella elaborata nel tempo) fu invece un punto interrogativo senza domanda, un “eh?” poco argomentato, poco colto, ma abbastanza eloquente.
Ieri (in qualità di sostituta alla persona paterna, spiegabilmente -ma solo a posteriori- sottrattasi all’impegno) è stata la volta di quest’acclamatissima versione di Romeo e Giulietta. Una versione ammodernata, da tutto esaurito, una versione da tre ore e mezza con Riccardo Scamarcio (e siccome sono una persona orribile partivo prevenuta – in negativo) e musiche originali.
Una versione che tutti gli spettatori alla mia destra, alla fine, c’avevano le mani in grembo immobili e non perché fossero stecchiti (a onor del vero quelle della fila dietro si son spellate le mani a forza di applausi e dalla prime file c’è stato un lancio di peluche che manco ad Amici di Maria).
Una versione in cui l’attrice che interpreta Giulietta Capuleti da Verona è turca e monocorde e urla,
Scamarcio ha gli occhialoni da Lega Nerd e urla,
Mercuzio è biondo platino però porta una parrucca corvina stile Renato Zero vecchia maniera, un cappello a cilindro e canta
sapore di culo odore di culo che hai sulla pelle che hai sulle labbra,
la balia di Giulietta sembra una prostituta in pensione e urla,
Frate Lorenzo indossa una t-shirt degli Iron Maiden sotto la tunica slacciata. E urla.
Una versione in cui la festa in maschera a casa Capuleti sembra una serata Disco On The Beach, con tanto di palme finte e luminose e gente che balla sulle sedie.
Una versione in cui alla fine della scena del balcone poco ci mancava che si dicessero t lovvo, ank io t lovvo.
Una versione in cui Montecchi e Capuleti bevono birra in bottigliette da 33 cc, si azzuffano tirandosi stereo portatili, ma risolvono le questioni più importanti con spade e pugnali dopo essersi galantemente schiaffeggiati per mezzo di guanti, come il codice dei duellanti vuole.
Una versione in cui alla (prima) morte di Giulietta l’orchestrina per la marcia nuziale si trasforma in un complessino jazz per funerali stile New Orleans.
Una versione in cui Giulietta, dopo essersi pugnalata a morte, schiatta rotolandosi sul pavimento tenendosi la pancia come in preda a lancinanti dolori intestinali e urlando ahio, ahio.
Una versione in cui, alla fine, sotto la statua dei due amanti, c’è un ammasso di fiori e peluche stile è morta Lady D.
Il tutto condito da una scriteriata mescolanza di linguaggi, quello originale shakespeariano, biascicato (urlando) e buttato lì, quello moderno stile lingua dei gggiovani – il doppiosenso è in agguato -, quello musicale di sottofondo (un po’ forzato) e da effetti sonori stile colpo di piatti ad ogni sberla e calcio. Ho sentito la mancanza delle risate pre-registrate.
(Le ceneri di) Shakespeare si starà(nno) rivoltando nella tomba urlando ahio ahio.