È arrivato un giorno prendendomi alle spalle, con violenza. Come un innamorato molesto mi lascia ancora senza fiato, a volte, sempre
meno. Forse è stata la mia reazione indifferente ad aver placato i suoi
bollenti spiriti, forse la propensione ad arrendermi a ciò che non posso
vincere, o l’attitudine spirituale all’accettazione del dolore come pagamento
per il male inflitto (chissà quando a chi o perché). Forse è stato il mio
desiderio di accoglierlo e capirlo, anziché combatterlo, a renderlo sempre più
tollerabile.
Il Panico è un film dell’orrore di cui ognuno costruisce la
trama. Un Thriller mozzafiato che si arricchisce ogni volta di uno o più
particolari. Il mio panico è una pellicola tagliata in più punti e di cui non
vedo mai il finale.
Il mio horror inizia in ascensore con titoli di testa appena
sfocati e un suono disturbato, una stazione radio che perde d’improvviso la
frequenza. La luce è sempre pallida, lampadine a basso consumo appena accese,
neon che frigge zanzare e falene e che sa tanto di obitorio.
Il pavimento -casa, strada, vicolo o piazza- si muove nonostante
me. È un terremoto psichico in cui, senza più punti d’appoggio, barcollo verso
una direzione incerta. La casa diventa estranea e così la strada –sempre quella
sotto casa- una prova di coraggio piena zeppa di tranelli.
Il semaforo, ad esempio, lampeggia un giallo per pedoni che sa
di tradimento, che nasconde l’intenzione di diventare rosso proprio quando mi
trovo a metà tragitto. No, non lo ammetto, è ovvio, nascondo anche a me stessa
la fobia pazzesca che mi tiene in ostaggio e prendo tempo, mi metto alla
ricerca del cellulare che proprio non serve, delle chiavi, che ho appena
riposto nella tasca esterna, della scusa più giusta per costringermi ad
aspettare e passare con il verde fisso. Il vicolo, che conosco come le mie
tasche, pare non avere fine e volersi gettare nell’oscurità, e quei pochi
passi, la distanza tra il portone e la panetteria che normalmente percorro in
un fiato, diventa un oceano di angoscia. Il panico è terrore infantile che suda
freddo.
Il panico non si può raccontare, se sono ancora viva non
posso dichiarare di essermi appena vista morta.
La piazza, assolata o imbrunita da un tardo pomeriggio pieno di gente, diventa crudele. La piazza di sempre, a due passi da casa e che di notte guarda la luna, si contrae e si espande. Per effetto di un grandangolo mentale diventa nemica, e anche il bar, quello solito, assume un aspetto spettrale. Il tempo perde battiti (e così il cuore), e già lo vedo espandersi per diventare oblio di morte. Non ho corso, ma mi sento in affano. Il mio panico dai colori spenti brilla, nell’oscurità o in piena luce, di rosso sangue: l’auto m’investirà, il vicolo m’ingoierà, la piazza mi soffocherà. Nel bar, dove vado ogni mattina, qualcuno mi accoltellerà. Il gatto, nella mia mente ormai una tigre, mi sbranerà. Allora immagino ambulanze e il mio corpo disteso, la mia bara e gli amici attorno che piangono. Il mio panico ha rumori ovattati o fortissimi. Dura manciate di secondi che sembrano anni. Nel bar decido di usare il rallenty e molte comparse. C’è gente che conosco, sì, ma sembra che proprio tutti mi guardino. Nel bar, anche la solita battuta suona volgare e rozza. Pago. Nonostante abbia toccato il portafogli già diverse volte, penso di averlo perso. No, è qui, eccolo finalmente. Conto il resto, ma stavolta con angoscia. Mi defilo stando un po’ curva e rasentando finché posso la parete, guardo il vuoto che ho davanti e che si fa più desolante. Rimbombano troppo i miei passi nel vicolo stretto. Lì, in quell’angolo oscuro accanto alla siepe, un nemico è in agguato. Anche le chiavi di casa –toccate un istante prima- si nascondono in borsa e tra le mie stesse mani. In ascensore riprendo a respirare. Chiusa la porta mi sento di nuovo al sicuro. Mi lascio scivolare sul pavimento: non ho più forze. Mi domando se la prossima volta saprò riconoscerlo.


