Un treno entra in galleria. Nell’ultima carrozza ci sono: un anziano signore, una ragazza, un distinto professionista, alcuni giovani, un trentenne precario e una famigliola rom. Passa il tempo e il tunnel sembra non finire mai. Sale la preoccupazione. L’aria si fa pesante. La gente comincia a mormorare. L’anziano si agita e muore. Il trentenne cerca di ragionare e appunta qualcosa su un taccuino. I ragazzi fumano qualcosa. La famiglia rom si barrica in una specie di roccaforte arrangiata e costruita con le tende schiodate dai finestrini. Il professionista scrive sul suo computer portatile. La galleria sembra non finire mai e la tensione sale ancora. Uno strano pacco è poggiato sul portaoggetti. I passeggeri tentano di ispezionare gli altri vagoni, ma le porte sono bloccate. Fa freddo... passano tre giorni e l’ansia diventa panico!
Riassunta in poche parole, è questa la trama dell’ultimo romanzo di Lorenzo Calza, pubblicato da Edizioni della Sera nella collana Calliphora. Un libro che somiglia tanto a un noir, che ricorda la suspense e la tensione dei thriller e la logica a incastri dei gialli, ma che non appartiene a nessuna delle tre categorie. Quello di Calza è un testo che qualcuno ha definito un “viaggio nel viaggio”. Ed effettivamente, mentre lo si legge, è la prima considerazione che viene in mente. “Questo dev’essere un percorso simbolico, una metafora della vita”. E invece no. È semplicemente una storia che ha si dell’assurdo, ma che, in qualche modo, spinge il lettore a una lettura attenta e realistica fino all’ultima pagina. Ci si chiede spesso: riuscirà il protagonista, assieme a tutti gli atri, a uscire da quest’incubo che sembra infinito? È reale questo viaggio o è frutto della fantasia?
Lorenzo Calza, noto per essere uno sceneggiatore di Julia, le avventure di una criminologa (Sergio Bonelli Editore), ha dato vita ad un libro che possiamo definire “anomalo”: carico d’apprensione, ma allo stesso tempo, quasi piatto. Se all’inizio, infatti, la lettura è avvincente e degna di un grande thriller, con lo scorrere delle pagine, la storia si sposta su di un piano surreale. Mentre cerca una via di fuga, il protagonista si ritrova in un mondo onirico abitato da personaggi eccentrici e particolari. Incontra, ad esempio, i suoi genitori e un’altra passeggera del treno da bambina, e assiste a un serrato dialogo tra Homer Simpson e Pier Paolo Pasolini. Un viaggio metaforico? Una parabola? Un volo pindarico tra allegorie e immagini astratte? Non è chiaro. O almeno da una prima lettera non traspare con nitidezza. Ciò che è certo è che questa parte narrativa, molto vicina al simbolico e al figurato, si dilunga forse un po’ troppo, soprattutto in un romanzo di genere.
Nulla da dire per quanto concerne la scrittura: semplice, lineare e discorsiva. Così come il linguaggio: diretto e privo di inutili fronzoli. La narrazione scivola a tratti e si inceppa in altri. Ma, molto probabilmente, tale “sincope” è stata voluta direttamente dall’autore. Un finale inaspettato e imprevedibile è la ciliegina sulla torta che fa di Panico un romanzo che merita sicuramente di essere letto.
Un’altra chiave di lettura, che fa anche da morale, è riassunta perfettamente dalla recensione di Stefano Liburdi pubblicata su Il Tempo: «Il lettore rimane coinvolto da questo viaggio rivelatore all’interno della nostra esistenza, dove tutto viene messo in discussione. Non ci sono più certezze, si diventa spettatori del nostro essere. Il treno corre veloce, mentre noi assistiamo immobili allo scorrere della nostra vita, dall’inizio fino al futuro, senza possibilità di afferrarla ma con la grande opportunità, forse, di capirla».
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