Molti, ma proprio molti anni fa, insieme alla mia inseparabile amica Eva, avevo seguito ben due corsi di cucina cinese; se non ricordo male non era ancora nata la mia seconda figlia, controllerò non appena mi tornerà in mente dove sono andati a finire gli attestati che per qualche tempo avevo con molto orgoglio appeso in cucina.
A ripensarci adesso sembra preistoria: i ristoranti cinesi erano una rarità che ci appariva il massimo dell'esotismo più raffinato.
All'epoca c'era chi scambiava per portagomitoli quei graziosi cestini di bambu che si cominciavano a vedere in qualche vetrina di casalinghi
e nessuno, ci metto la mano sul fuoco, nessuno, aveva ancora fatto caso alla stretta connessione tra l'involtino primavera e la puzza di fritto nei capelli.
Così, appena avevamo saputo dell'esistenza di questi corsi ci eravamo iscritte. Le lezioni avvenivano nelle cucine di un ristorante piuttosto elegante, e le prime volte fu piuttosto sconcertante doversi destreggiare tra le chiazze d'unto sul pavimento. Ma dato che ci si abitua a tutto, dopo un paio di lezioni eravamo diventati abilissimi nell'individuare i pochi francobolli di spazio libero da gusci d'uovo e bucce per appoggiare il taccuino degli appunti. Però il nostro insegnante/cuoco era bravissimo e mi mangio ancora le mani quando penso che gli ho visto davvero fare gli spaghetti come in questo video e l'idea di scattargli una foto non mi ha nemmeno sfiorata
Capire cosa stesse dicendo era un'impresa, scambiava la erre con la elle come i cinesi delle barzellette, però quando abbiamo finalmente realizzato che uno pecchieie felina voleva dire un bicchiere di farina è stato come decifrare la stele di rosetta e da lì in poi non abbiamo più avuto bisogno dell'interprete. Non ci ha insegnato soltanto a cucinare dei piatti ma ci ha spiegato l'accostamento dei sapori e ci ha fatto capire che in un menu cinese non esistono primi secondi e contorni. Ora sembrano cose di poco conto ma all'epoca era una piccola rivoluzione che ci aveva permesso di sorprendere gli amici che venivano a cena da noi e con il minimo sforzo ci aveva regalato l'aureola di grande cuoca
Ci aveva anche insegnato il segreto per laccare la pelle dell'anatra: basta separare la pelle dal corpo, prendere un grosso imbuto riempire lo spazio tra pelle e carne di acqua bollente e appendere poi il tutto all'aria per ventiquattr'ore prima di procedere alla preparazione vera e propria e alla cottura. Non ci voleva niente secondo lui, ma io nel dubbio non mi ci sono mai cimentata.
Le crepes cinesi che solitamente accompagnano l'anatra laccata invece si, un paio di volte ho provato a farle. Il procedimento è di una semplicità disarmante: si impasta la farina con l'acqua fino a farne una palla, si mette sulla fiamma una padella di ferro e, quando questa è ben bene arroventata, con la mano sinistra si appoggia la palla sulla padella. Un sottilissimo velo di pasta dovrebbe restare attaccato alla padella e in un nanosecondo la prima crepe dovrebbe essere cotta a puntino.
Credo sia chiaro il perché dopo due tentativi io abbia capito che per me non era cosa.
Molto meno complicato, e per di più foriero di grandi soddisfazioni, il procedimento per preparare i pao-tzu, quei pani cinesi cotti al vapore di cui l'altro giorno una mia amica cercava la ricetta, e che hanno dato la stura a questa nostalgica divagazione.
P.S. Non trovando più gli appunti presi tra gusci d'uova e bucce ho passato allo scanner un paio di versioni della ricetta di questi pani. La prima proviene da questo libro pieno di splendide foto e pubblicato nel 1986
La seconda è presa da qui. Il libro è stato pubblicato nel 1975 e gli sono molto affezionata perchè è stata la mia prima bibbia in materia