Appena uscito su Roars, l’articolo di Paola Galimberti tratta di una questione solo in apparenza burocratica e trascurabile per chi discetta di massimi sistemi: come facciamo a sapere che cosa producono i ricercatori che lavorano nell’università italiana? Come facciamo a sapere quanto e come si citano e vengono citati?
Questi dati sono reperibili da due categorie di fonti:
- enti pubblici, che usano sistemi di archiviazione diversi e non necessariamente interoperabili, e che non necessariamente rendono pubblico quanto possiedono;
- enti privati, quali Thomson-Reuters (Wos), che raccolgono e vendono dati sulla base dei loro interessi di mercato.
La valutazione della ricerca vorrebbe dipendere almeno in parte da indici bibliometrici, cioè da indicatori di popolarità della produzione di ciascun ricercatore da misurarsi con le citazioni ricevute in una platea predeterminata di testi. Il fatto che i dati che dovrebbe usare siano pubblici ma nascosti, o privati e nascosti, o pubblici ma non interoperabili, parziali, e ottenibili – in tempi di crisi e di tagli – per lo più a pagamento mette seriamente a rischio l’attendibilità di questo esercizio.
Una politica coerente a favore della pubblicazione ad accesso aperto, perseguita dalle università, favorita dal ministero e condivisa da ricercatori che finalmente si rendessero conto che il modo stesso in cui disseminano i loro testi è parte dei massimi sistemi di cui si occupano avrebbe potuto rendere l’esercizio più facile, più economico, e soprattutto più trasparente e meno esposto al rischio di ridursi a un grado di appello del tribunale di Kafka.