Si alza forte il canto, in questo libro di Paola Turroni, primo titolo pubblicato per la collana dell’associazione Carta Bianca, diretta da Stefano Massari. La terra si riappropria della sua lingua, una lingua impastata di necessità e dolore. E’ il canto dei profughi; donne, uomini, bambini, costretti ad abbandonare la propria terra per necessità di sopravvivenza, e per sfuggire alla guerra, a ogni forma di guerra. Perché «La guerra è per sempre». E ci sentiamo coinvolti in questa marcia forzata fatta di valichi e punti cardinali, marce a tutte le latitudini della terra, di uomini senza lavoro, bambini senza pane, madri che riavvolgono tappeti: unica casa. Questi testi sembrano attraversare tutta la Storia, ma tenendosi strettissimi agli avvenimenti di una cronaca, quasi che, la materia dei grandi poemi, degli esìli, dei padri persi e delle spose vendute, fosse rimasta sempre nell’urgenza di avere un canto da tramandare ai posteri; per i nostri giorni, per i nostri eterni giorni di guerra. Così, leggendo, passano davanti agli occhi le immagini terribili dei grandi reportage, le parole delle testimonianze, il non senso di ogni guerra. Sentiamo, dunque, al presente, l’urgenza di queste parole, ma nello stesso tempo ritorniamo al lamento disperato delle supplici, i cori dei superstiti. Innestandosi in una linea che da Jaher arriva fino ad Alba Donati, proclamando come musa la dea dell’indignazione e della pietà, i testi di Paola Turroni mai rinunciano alla costruzione severa del senso all’interno di un ambizioso obiettivo: quello di raccontare la storia, lo sdegno e la pietà, con parole udibili da tutti, senza stampelle critiche o giustificazioni metaletterarie. «Le persone che stanno cadendo/le persone che sono state mie/le persone ti chiamano in causa//con le persone sei dalla parte della terra». L’io, dunque, con tutta la sua caparbia sedimentazione novecentesca, qui si fa da parte, ma non nel modo ipocrita di una rinuncia alla presenza della voce. Cosciente che un canto non può essere mai totalmente soggettivo, Paola Turroni sceglie la presenza forte di un io narrante, indignato, affiancato dal coro delle voci che raccontano il loro peregrinare, dolenti nella descrizione di gesti minimi, soggettivi, o delle grandi scene in cui tutti, contemporaneamente, devono compiere lo stesso gesto. La nudità delle immagini, la loro funzione involontariamente cerimoniale, improvvisamente ci spoglia degli ammennicoli della vita, dell’immorale quotidianità: «Guardati nudo, mostrati orgoglioso, le tue ferite sono/la loro vergogna, mostra il vuoto di quello che hanno preso./Questi corpi spellati si seccano, come aringhe, come funghi./Corpi stesi secchi, messi alla prova/destinati alla terra». Forse la terra è vedova della pietà ma non della poesia quando essa sappia riappropriarsi della sua forza e della sua necessità. (punto, almanacco della poesia italiana 1/2011)
Sebastiano Aglieco