Paolo Caravello è un artista e designer romano. Particolare e curiosa è la scelta dei materiali con cui si esprime: carta riciclata, cartoncini, colla vinilica e colori ad acqua, combinati sia con elaborazioni grafiche digitali che con estemporanei e gestuali segni di manualità.
Ne derivano immagini le cui suggestioni di non finito, approssimato e temporaneo prevalgono rispetto alle caratteristiche patinate dell’immaginario a cui si rifanno.
Gli abbiamo fatto quache domanda, per scoprire qualcosa in più su di lui e i suoi lavori..
Chi è Paolo? Da dove viene, e dove sta andando?
Vengo da Roma, e dalla facoltà di architettura. Sono andato in varie direzioni in passato, quasi sempre inaspettatamente e quasi mai mi sono pentito di aver provato nuove strade. Non so davvero dove stia andando, né geograficamente né metaforicamente, fare piani non è il mio forte.
Come ci spieghi questa scelta dei materiali?
É una conseguenza dell’aspetto più gestuale del mio lavoro: interagire con scarti, ritagli, materiali poco costosi o trovati mi dà la possibilità di tenere lontane le inibizioni, rielaborando quello che ho imparato e che è chiaramente frutto delle mie esperienze e del mio background, ma in maniera istintiva.
Carta riciclata, tovagliette, cartoncini vari e colori acrilici sono per me strumenti ideali per esprimere fattivamente e visivamente il tema dell’imperfezione.
Come ci spieghi il senso di “non finito, temporaneo” delle tue opere?
Sono intereressato al grezzo, alla bozza, alla caducità. In questo mi ispiro alla streetart, che seguo da sempre. Nell’idea di creare qualcosa che potrebbe durare anche solo poche ore vedo, in maniera forse iper-romantica, la constatazione del continuo, a volte imperceccettibile mutare delle nostre vite.
É il tema della caducità, appunto, che mi spaventa e mi affascina. Per esorcizzarlo mi servo di elaborazioni grafiche digitali che in qualche modo fissano il “non-finito” in un certo frammento di temporale.
Sappiamo della tua prossima esposizione a Glasgow: punto di partenza o un primo traguardo?
Sono molto attento a quello che succede all’estero. Aver vissuto a Londra per qualche anno mi porta ad avere una visione ampia del contesto in cui mi muovo. La collettiva a Glasgow è senz’altro una delle tante tappe del mio percorso, un’opportunità per collaborare con altri artisti alla quale tengo molto.
Cosa ne pensi del panorama artistico italiano?
Molto si muove, ma spesso ci si scontra contro un muro. Il lavoro dei creativi non è considerato adeguatamente e quasi sempre è sottopagato o non pagato affatto. Ma detto questo, credo che il sentimento diffuso di assenza di opportunità in questo paese vada affrontato in maniera propositiva, attraverso l’autopromozione, allargando i propri orizzonti e lavorando con consapevolezza del proprio valore, e con professionalità.
Di conseguenza, cosa consigli ai giovani talenti, oggi?
Di tenere sempre un occhio sul panorama internazionale e un piede sulla porta di casa. E di lavorare come matti, perché niente è gratis, ma di fermarsi anche, a volte, per studiare, pensare e sognare.