Spesso si cercano frasi a effetto, aggettivi complicati per cercare di rendere e definire quel che complicato non è; così, se mi fermo a riflettere sullo spettacolo di Paolo Nori che in questi giorni attraversa l’Italia “Noi e i Governi” in mente mi viene una parola… continuo a pensare che sia proprio “bello”.
Paolo Nori, nato a Parma, di mestiere scrittore e traduttore di autori dal russo, ama anche scrivere e mettere in scena spettacoli basati sulla lettura. L’ultimo si intitola “Noi e i Governi”: la raccomandazione per i lettori è di andarlo a vedere, ovunque ne abbiano l’occasione, correndo il rischio di commuoversi, infiammarsi, sognare e, nonostante le raccomandazioni di Nori - che non ama essere interrotto dagli applausi se non a spettacolo concluso - di non riuscire a frenarsi e applaudire a scena aperta rimediando una figuraccia.
Lo scrittore, in uno scenario scarno, fatto solo di un leggio ma accompagnato dal Coro delle Mondine di Novi, che in tutto fanno circa venti coriste dagli enta agli anta, parte dalla lettura dei “Disastri” di Daniil Charms, di cui ha curato di recente la traduzione per la Marcos y Marcos, per una serie di riflessioni e citazioni che di certo non possono lasciare indifferente lo spettatore.
Daniil Charms, “scomodo” autore russo la cui arte fu considerata degenerata e antisovietica, con un eufemismo potremmo dire visse di scrittura, se per vivere si intende patire la fame e finire in galera prima e in un manicomio poi, dove morì di fame nel ’42. Tutti i suoi scritti sarebbero andati perduti durante il bombardamento di Leningrado, dove a essere bombardata fu anche la sua casa, se un amico non avesse salvato e conservato la valigia che li custodiva. Sotto forma di libro poterono circolare solo a partire dagli anni ’60, quando divenne uno degli autori russi più letto, amato e imitato. Questo racconta Paolo Nori, poi legge parti di questi racconti, frammenti brevi, tra il grottesco e l’assurdo, dove l’interpretazione di Nori (perfetta) non ha niente da invidiare alla traduzione. Quindi, rivolgendosi al pubblico, pone una domanda, “Meglio morire di fame in un manicomio sotto un Regime o con la sedia elettrica in una Democrazia?” e qui segue il racconto della dolorosa storia di Sacco e Vanzetti, nella democratica America, e le parole del discorso di Vanzetti, nel suo estremo tentativo di difesa davanti al giudice.
Ancora il coro, che rimanda alla Resistenza partigiana e al lavoro delle donne nelle risaie che chiedevano solo il riconoscimento dei loro diritti; si interseca ad altre riflessioni, tristemente attuali, ma non manca il tempo per citare un Proudhon del 1840 e prima ancora il filosofo greco Epitteto e chiedersi, ancora, “chi tra i presenti può dare un reale esempio di coerenza e libertà. E quanti invece questa libertà se la sono venduta in cambio di un aumento di stipendio?”.
Se il governare si trasforma sovente in anarchia, la forza della stessa si basa sugli esempi e sul fatto che l’uomo sia buono. Il partire da un esempio che non sempre è corretto ne crea l’immancabile degenerazione. Questa potrebbe essere la chiusura degna, la riflessione finale. Ci si abbandona alle note di “O bella ciao” che suonano tristi e infinitamente lontane.