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Paradise: Love

Creato il 16 dicembre 2012 da Eraserhead
Paradise: LoveRitorna lo sguardo più affilato di tutto il cinema europeo, riapparizione che giunge a cinque anni di distanza dall’ottimo Import/Export (2007), un lustro di assenza nel quale il viennese Ulrich Seidl ha potuto pianificare un progetto a lunga gittata composto da tre film diversi costituenti una trilogia incentrata sul concetto di paradiso che viene perseguito dalla tipica umanità-qualunque seidliana attraverso pratiche che odorano tristemente di illusione. Si parte con Paradies: Liebe (2012) e con Teresa, una madre single dalla routinaria professione (l’incipit degli autoscontri riesce a trasmettere un senso di scoramento che qualunque didascalia non sarebbe riuscita ad esprimere) che parcheggia la figlia dalla sorella (la quale sarà protagonista del film successivo: Paradiso: Fede, 2012) e parte alla volta del Kenya per passare una vacanza in cui il mare, il sole e le spiagge sono aspetti decisamente secondari.
La forza incidente è per chi scrive un pelo inferiore a quelle che l’hanno preceduta nella filmografia di Seidl e la causa ritengo che possa essere l’aver abbandonato quella coralità ad orologeria tipica dei lavori di fiction dell’austriaco (vedi Canicola, 2001), qui al contrario abbiamo un unico soggetto da dover osservare, il che riduce l’annichilente pluralità a cui eravamo abituati, questo comunque non significa che i fendenti di Seidl siano diventate delle carezzine. Possiamo affermare prima di tutto che la sua ricerca estetica fatta di piani fissi (in molti casi simmetrici: notare l’inquadratura al bancone del bar) che fanno leva sulla profondità visiva e, semplicemente, sull’essere Immagine (i campi lunghi del litorale con la netta suddivisione tra turisti e autoctoni sembrano dipinti), viene “sporcata” da pedinamenti con camera in spalla che seguono Teresa tra gli sciami di vucumprà o lungo le buie strade della città fuori dal resort, l’elemento innovativo funziona e denota una certa maturità del regista che per quanto concerne la messa in scena, tenuto anche conto che le ambientazioni di Seidl fino a quest’opera si erano concentrate nel tipico grigiore periferico centroeuropeo, dà il meglio di sé.
Poi c’è tutta la componente che riguarda l’Uomo da sviscerare. È chiaro che Seidl ha ormai ben poca fiducia nella razza, e imprime tale diffidenza dal primo al centoventesimo minuto di proiezione, detto in parole povere: non si salva nessuno. L’autore è molto convincente nel costruire il meccanismo di disillusione in cui precipita Teresa, se si esclude una certa frettolosità riguardante l’elargizione di denaro da parte delle protagonista pochissimo tempo dopo il primo incontro con Munga, è avvilente prendere atto di come la donna, giunta in Africa con intenzioni simil-romantiche, dopo la prima batosta sentimentale precipiti in una sorta di apatia che la spinge esclusivamente al pos-sesso dei corpi, e tale desiderio di possedere, di prevaricare, di ottenere ciò che si desidera, di prendersi una rivincita da femmina occidentale che per troppo tempo ha subito lo strapotere dell’altra metà, si rintraccia anche nell’altro gruppetto di turiste austriache, tanto che la raggelante scenetta dello spogliarello con il toy-boy di turno riepiloga perfettamente la condizione in cui versa il gruppetto vacanziero. Parimenti i nerboruti kenioti si profilano come diavoletti che tentano di estorcere più uova d’oro che possono dalle loro vecchie galline nemmeno buone per un brodino.
È in questa scoraggiante visione globale che Paradise: Love trova compimento, quello di Seidl è un cinema che film dopo film indica il disfacimento di una società che da tempo non ha più un valore che sia uno e vaga smarrita affidandosi a chimere che nel momento in cui vengono afferrate sono già svanite.Paradise: Love

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