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Paradossi apparenti, di Giuseppe Germinario

Creato il 24 marzo 2013 da Conflittiestrategie

psicologia-dello-zorba_PSAIKU_PARADOSSI_01“La prospettiva europea per i paesi periferici è stata una prospettiva di sviluppo; le forze progressiste hanno fatto di questa prospettiva un tratto distintivo della loro identità”.“Noi ci aspettavamo che di fronte a un peggioramento economico che riguardasse anche la Germania alla fine si sarebbe arrivati ad un cambiamento; purtroppo non è così. L’area euro per come è gestita alimenta una divaricazione; la Germania gode di bassi tassi di interesse, vive nel migliore dei mondi possibili e tiene vincolati i paesi europei competitori con un euro svalutato rispetto al valore della propria economia” ; “o questo quadro cambia, o la situazione si sfascia”; “il nostro risultato svela un’amarissima verità: una forza progressista di un paese periferico, in questa Europa, non ha possibilità di autonomia….., non dà risposte e viene marginalizzata in quanto inutile”; “è un problema di democrazia nazionale inutile,… è la dimensione nazionale che è inutile”; “il cambiamento deve avere una dimensione europea … riconoscendo i problemi che abbiamo”; “una prospettiva diversa dell’Europa per evitare una rottura oramai sempre più accelerata”.

Parole che strascicavano con gran fatica dalle labbra di Stefano Fassina, responsabile economico del partito, nel suo intervento alla direzione del PD del 6 marzo scorso http://www.youdem.tv/doc/251579/direzione-nazionale-pd-intervento-di-stefano-fassina.htm ; in quelle poche frasi, nella solitudine di un intervento che consiglio di ascoltare, sono condensati drammaticamente però tutto il velleitarismo, le illusioni e lo smarrimento di un intero gruppo dirigente dalla maschera ancora imperturbabile ma sempre più terrea.

L’illusione, intanto, lungamente coltivata che l’estensione della crisi anche ai paesi più forti, compresa la Germania, avrebbe indotto questi ultimi a più miti ragioni e, quindi, ad una politica espansiva con minori vincoli di debito; pur di rimanere aggrappato alla residua e consolatoria certezza che la crisi comune induce i paesi a una comunità di intenti e di politiche, Fassina attribuisce alla Germania l’appartenenza “al migliore dei mondi possibili” fatto di bassi interessi bancari e di crescita. Alla luce di questa aspettativa si spiega la sicumera con la quale Bersani nei mesi passati, ma con sempre minore convinzione durante la campagna elettorale, affidava all’Europa, in cuor suo alla Germania, il reperimento di quelle risorse che l’Italia non poteva permettersi di utilizzare a debito. I ripetuti raid in Francia e Germania nel corso della campagna elettorale devono evidentemente averlo ricondotto bruscamente alla realtà e avergli tarpato le ali di ogni residuo ottimismo elettoralistico.

Quella illusione, però, tende a sminuire il peso della crisi che grava comunque anche su quel paese, anche se con modalità al momento meno distruttive e pesanti che nell’area mediterranea.

L’associazione e la rivendicazione esplicita dell’attuale europeismo allo sviluppo, rivendicata da quasi tutto il gruppo dirigente del PD, è una ulteriore inconsapevole illusione, distribuita a piene mani che la crisi sia un fattore momentaneo e contingente piuttosto che un processo dinamico, anche regressivo, da gestire nei prossimi lunghi anni e con esiti probabilmente traumatici.

Crisi diventa, quindi, sinonimo di flagello divino che si abbatte inesorabile secondo ragioni cangianti e quindi di fatto imperscrutabili soprattutto sui paesi con le maggiori colpe da espiare ma alla quale viene ad essere chiamata a rispondere l’intera comunità internazionale; crisi in realtà è sinonimo di traumatica destrutturazione e ristrutturazione delle relazioni tra formazioni sociali e paesi operata da gruppi i quali per confliggere e cooperare tra loro, per determinare le gerarchie, devono contendersi il controllo delle formazioni sociali stesse e dei relativi apparati che le sostengono e le plasmano. Diventa, quindi, il momento di precipitazione di eventi, di rottura che accelera il conflitto e la regolazione dei rapporti di forza.

Un punto di vista incomprensibile da chi giudica appunto “la dimensione nazionale del tutto inutile”; è il frutto avvelenato della retorica europeista fondata sul regionalismo e sullo svuotamento degli stati nazionali, senza un equivalente europeo, che ha imperversato per decenni soprattutto nei paesi periferici e meno coesi; responsabile del ripetuto annichilimento di quei gruppi portatori dell’interesse nazionale che avrebbero altrimenti consentito quantomeno condizioni di trattativa più onorevoli ed eque.

Altrettanto incomprensibile da parte degli stessi, accecati dall’unilateralità della valutazione dei dati macroeconomici (spesa pubblica, inflazione, ect), è la considerazione che la fase di crisi rappresenta il momento di rottura e di maggior divaricazione dei processi di ristrutturazione e riorganizzazione di settori e paesi, nonché di maggior conflitto alla ricerca del predominio.

Per inciso, infatti, apprendiamo che il paese, nella rappresentazione di Fassina, è già diventato quello che rischia di diventare solo alla fine del declivio intrapreso: “un paese periferico”.

In questo modo viene del tutto oscurata la natura politica del confronto e dello scontro in atto in Europa e il livello di inetta subordinazione del nostro ceto politico. Basterebbe ricordare come la disintegrazione del blocco sovietico e la fine traumatica della Jugoslavia hanno ridefinito le zone di influenza dei grandi paesi europei, in particolare della Germania, i loro reciproci rapporti e le modalità di subordinazione al centro dominante statunitense, dettate, come ulteriore elemento di complicazione dell’analisi, dall’avvicendarsi di diverse opzioni strategiche. Come spiegare altrimenti, nell’ambito ristretto dell’economia, l’accordo favorevole alla Germania e al sistema finanziario anglosassone che indica nella partecipazione azionaria pubblica piuttosto che nelle garanzie pubbliche offerte al sistema bancario uno degli indici di esposizione debitoria dello stato e di adesione agli standard del sistema di controllo bancario europeo; come pure il maggior peso riconosciuto al rischio del credito verso le imprese piuttosto che all’esposizione nei titoli derivati e speculativi che tanto ha pesato sulla ricapitalizzazione del sistema bancario italiano rispetto a quello tedesco; per non parlare del recupero dei capitali dai paesi a rischio effettuato dalle banche franco-tedesche e indirettamente dalle grandi banche di investimento americane a spese dei contributi diretti degli stati nazionali, compresa l’Italia stremata dagli attacchi speculativi.

Viene oscurata, soprattutto, la natura distruttiva e autolesionista di questo scontro, il carattere meramente difensivo verso gli Stati Uniti e offensivo verso i “fratelli europei” dell’azione della stessa Germania, proprio perché continua a dare per scontata la subordinazione e l’assoluta permeabilità di tutti i paesi europei al contesto atlantico e quindi statunitense, sacrificando le alternative offerte dalle relazioni e dai legami possibili, specie quelli politici, con la Russia e gli altri paesi emergenti.

Il risultato di questa rinuncia esplicita alla valorizzazione e rivitalizzazione dello stato nazionale nelle trattative con gli altri paesi europei comporterà all’Italia, nel migliore dei casi, una ulteriore subordinazione diretta agli Stati Uniti come estremo tentativo di resistenza alle fagogitazioni perpetrate dai vicini di casa, da Germania e Francia in particolare. Una politica funesta che ha percorso regolarmente i decenni dell’Italia repubblicana, ma che ora sta trovando il pieno compimento nella politica estera del paese, nel tipo di impulso che si vorrebbe imprimere al processo unitario europeo e nei processi di smembramento e cessione delle poche aziende strategiche rimaste, in primis ENI e Fimeccanica;  una politica che ha portato alla ricorrente emarginazione dell’industria italiana dai processi pur limitati di concentrazione su basi più paritarie dell’industria europea.

La reazione a questa incomprensione delle reali dinamiche politiche in corso si risolve in un appello ripetitivo e generico, ma sempre meno accorato, a realizzare “più Europa”, senza specificare concretamente e apertamente le forze portatrici, i limiti esterni alla Comunità, le strutture statali da costruire proprio perché inconfessabili sono le finalità politiche reali di questo processo.

Il modello ispiratore del processo unitario europeo, a detta dei suoi ideologi e secondo gli studi elaborati negli anni ’40 nelle università americane e trapiantati letteralmente nell’Europa occupata, è sempre stato quello degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti, però, non hanno conosciuto un’unica forma statuale dalla loro nascita; quando l’attuale struttura federale ha preso forma soltanto a partire all’inizio del ‘800, lo ha fatto approfittando della grave crisi finanziaria di parecchi stati dell’Unione e si è sviluppata accentuando il contrasto interno tra le forze subordinate e quelle più sovraniste sino a determinare le condizioni della guerra civile e la sconfitta delle prime.

Un processo esattamente opposto a quello europeo, nato dall’indebolimento catastrofico dell’insieme dei paesi del continente legato all’esito di due guerre mondiali e ad una occupazione militare compiuta del continente; cresciuto sul regionalismo e sul localismo contrapposti a culture e strutture statuali nazionali frutto ormai di secoli di storia e non facilmente estirpabili, anche se annichilibili; una contrapposizione utile a perpetuare il collante ideologico occidentalista e la subordinazione politica alla potenza americana con lo spauracchio continuo della possibile ripresa dei nazionalismi guerrafondai e delle dittature. All’interno di questo processo ci sono paesi, in particolare la Germania che, pur in posizione subordinata, hanno saputo trarre vantaggio dalla retorica del regionalismo per recuperare la zona di influenza su di una comunità dispersa e frammentata dalla sanzione diplomatica scaturita dalla sconfitta militare; altri, come l’Italia e in misura molto minore la Francia, hanno visto indebolire il proprio tessuto sociale e la coesione della propria formazione sociale sino ad arrivare ad una vera e propria frammentazione del paese e scollamento dei propri apparati statali.

Una situazione che alimenta continuamente il paradosso di quelle forze politiche che quanto più si proclamano paladine di un governo mondiale e, nelle more, dell’Unione Europea, tanto più si rivelano espressione di forze particolaristiche e residuali, collaterali della formazione sociale di appartenenza.

Una condizione particolarmente ed immediatamente evidente e stridente nella formazione politica ispirata da Mario Monti, il più cosmopolita ed europeista degli esponenti politici. Partita da due iniziative concomitanti, una di Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo e l’altra dai seminari di Todi 1 e 2, sponsorizzati in particolare dalla Chiesa Cattolica, soprattutto dalla sua componente episcopale, entrambe hanno rivelato sin dall’origine i limiti delle adesioni di sole organizzazioni di tipo collaterale la seconda e di ristretti settori manageriali del tutto dipendenti da centri esteri la prima. Una sorta di Democrazia Cristiana del tutto priva, però, del determinante pilastro rappresentato dai centri manageriali dell’impresa pubblica e dai centri di potere fondamentali dello Stato; una debolezza rappresentata degnamente dall’alleanza con figure  politiche decisamente minori e residuali quali Fini e Casini e che ha determinato il progressivo defilarsi di buona parte di quelle stesse forze collaterali inizialmente promotrici già durante la campagna elettorale.

Una condizione che ha progressivamente riguardato, negli ultimi vent’anni, anche il PD, con la progressiva estinzione della sua componente socialdemocratica, da sempre comunque minoritaria, sino al precipitare della situazione attuale sulle spalle dell’attuale costernato gruppo dirigente.

L’attuale linea adottata da Bersani non è determinata appunto solo dalla necessità tattica contingente e strumentale di attrarre buona parte del gruppo parlamentare del M5S per formare il proprio Governo e recuperarne successivamente il relativo elettorato. La pervicacia con la quale Bersani si ostina a trattare i temi della moralità, della corruzione, della giustizia forcaiola rispetto al silenzio diplomatico, scontato però nei contenuti e nel programma impliciti, sulle questioni dell’Unione Europea e delle sue prominenze economiche ed economiciste, mira con ogni evidenza a dividere le diverse anime di quel movimento e a favorire quegli impulsi e quei riflessi condizionati  contenuti nei primi i quali potranno favorire lo sfarinamento precoce del movimento e il rientro all’ovile di sinistra di buona parte del gruppo dirigente in formazione con scorno, a loro volta, di buona parte dell’elettorato che lo ha recentemente sostenuto.

Le caratteristiche attuali del M5S sembrano favorire questi propositi. Il movimento è in pratica una sommatoria di movimenti locali o tematici, tendenzialmente comunitaristici, ai quali Grillo ha saputo offrire un cappello politico e una piattaforma di incontro e di coordinamento. Con un gruppo dirigente più capace e meno maneggione, il fu movimento dei Verdi avrebbe potuto, con queste forze, creare sicuramente un partito simile a quello tedesco adatto a raccogliere tutte queste realtà e a sancirne, però, l’esplicita subordinazione; basterebbe osservare il ruolo di costoro in Germania sulle questioni di politica estera ed energetiche. Il fallimento miserevole di quel gruppo dirigente ha consentito lo sviluppo dualistico di questa nuova realtà politica anche se mi pare indubbio il peso predominante di Grillo rispetto alla base dei candidati locali nel determinare l’attuale successo elettorale e la capacità di acquisire voti anche dal versante della Lega e del centrodestra. Un ruolo, quest’ultimo di Grillo, teso a neutralizzare il legame sentimentale verso la sinistra di buona parte degli eletti. Una situazione in cui le esigenze tattiche fanno a pugni con le affinità elettive e queste a loro volta con le enunciazioni genericamente critiche in materia di politica europeista. La stessa determinazione con la quale il gruppo sta cercando di entrare negli organi di controllo della spesa del Parlamento e dei servizi e ritrosia, invece, con la quale è disposta ad entrare nelle commissioni sui temi dell’economia e della politica estera, nella loro banalità, rivelano i limiti e l’improvvisazione del nuovo gruppo politico. La propensione a ritagliarsi un ruolo di controllo e di inquisizione sulle modalità di gestione della spesa e delle strutture amministrative rispetto ad un ruolo di definizione delle politiche, corroborata dalla sempre più evidente flebilità con la quale stanno affrontando le tematiche europeiste, rivelano la comoda tentazione di ripiegare verso un ruolo subordinato di moralizzatori di politiche altrui rispetto a quello di decisori.

Questa stessa necessità contingente espressa da Bersani, cui accennavo in precedenza, non fa che accentuare una tendenza presente da tempo nel PD a rappresentare, tra l’altro malamente, interessi sempre più ristretti e particolari e sempre meno compatibili con le conseguenze della sua stessa politica europeista, agli antipodi da quei centri decisionali e da quelle forze sociali decisive nel poter determinare una svolta del paese.

Il programma in otto punti di Bersani è emblematico di questa povertà e di questo paradosso; il discorso della neopresidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, assieme alla sua storia personale, http://video.sky.it/news/politica/boldrini_presidente_camera_il_discorso_di_insediamento/v153600.vid è stato un ulteriore passaggio verso quella sinistra “compassionevole” tanto ecumenica quanto complice ed impotente la quale servirà tutt’al più a redistribuire le briciole sempre più striminzite disponibili in un paese stremato, ma non a creare le condizioni di una rinascita del paese.

Su questo Bersani, nel gioco delle parti, sembra trovare un valido alleato nella condotta del PDL di Berlusconi tesa a logorare in tempi brevi il M5S, ma con margini di manovra molto più ristretti e rischi di insuccesso molto maggiori rispetto a quelli disponibili tra le mani del Cavaliere.

Se Grillo riuscirà a tenere a bada i suoi almeno per qualche mese, con un Berlusconi molto più spregiudicato nel combinare le critiche all’Europa “tedesca” con la proposta di Governo di coalizione, alla fine sarà il PD a rimanere con il cerino acceso a logorarsi più degli altri, con però la carta Renzi ancora disponibile ma soggetta all’usura del tempo; con tutte le formazioni politiche, però, permeate da un carattere sempre meno nazionale.

Un gioco in cui la vittima designata appare il M5S, ma il cui esito potrebbe portare all’implosione dei diversi giocatori. Gran parte dell’esito dipenderà da fattori esterni e in primo luogo dalla questione dell’attuale Unione Europea e delle dinamiche politiche che si stanno repentinamente innescando in paesi cruciali come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna. È l’argomento che potrebbe portare al rinsecchimento definitivo del PD, alla frammentazione degli attuali altri partiti e alla proposizione di un dibattito politico più corrispondente ai problemi sul tappeto e alla necessità di formazione di forze politiche sovraniste. Un dibattito che con l’esperienza del Governo Monti stava per decollare ma che fu prontamente censurato vista la piega rischiosa che avrebbe potuto prendere. L’esito delle recenti elezioni ha contribuito ad incrinare il muro di rimozione ed omertà; l’evolversi degli eventi, a cominciare dall’incarico a Bersani e dalle figure inquietanti che iniziano a coprire gli incarichi istituzionali, stabilirà la natura e profondità di queste crepe e il carattere di semplice testimonianza o di reale politica alternativa all’attuale costruzione europeista, non ostante l’evidente constatazione che le attuali forze conservatrici abbiano ben poco di positivo da offrire al paese e che siano, pressoché tutte, sempre più espressione di centri politici e frammenti di forze sociali, cementati in questo solo dal progressivo radicamento di tentazioni comunitariste antitetiche rispetto alla esigenza di forza dello Stato, tanto corporativizzati, quanto collaterali e residuali rispetto ai disegni che si stanno delineando nello scacchiere continentale e mondiale. Su questo degrado nell’approccio politico, tra l’altro, la Chiesa Cattolica e gran parte del suo associazionismo ha esercitato una influenza politica ed ideologica molto più pervasiva di quanto possa apparire esattamente parallela allo sfarinamento e alla scomparsa del suo esponente politico di un tempo: la DC. Una dinamica del resto ben delineata dai vescovi più accorti e sagaci. L’ennesimo frutto perverso del crollo del sistema politico degli anni ’90.


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