J. Wolstenholme, Libri su libri
Non sto qui a denigrare una pratica importante per la propedeutica all'analisi del testo poetico, per carità. Quello che voglio stigmatizzare della parafrasi è la tendenza a sostituirla al testo poetico, esibendola come un suo equivalente più immediato. Insomma, la parafrasi non può essere il fine dell'analisi testuale, ma deve essere considerata uno fra i tanti strumenti di questa disciplina. Anche perché, da sola, una traduzione in italiano corrente non basta a restituire la completezza di un testo, e, anzi, pone una serie di problemi nel momento in cui scelte linguistiche e retoriche si intrecciano indissolubilmente: penso sia abbastanza immediato cogliere la degradazione del testo che interviene fra «La Chioccetta per l'aia azzurra / va col suo pigolio di stelle» (G. Pascoli, Il gelsomino notturno, vv. 15-16) e «La costellazione delle Pleiadi brilla con tutte le sue luci nel cielo». Il contenuto è salvo, la forma e la bellezza sono affossate.La riflessione che vi propongo parte dalla lettura di un pezzo di Cultora dal titolo Riscrivere i classici in lingua moderna: un crimine contro la letteratura, scritto da Mara Abbafati, che a sua volta rimanda ad un dibattito in corso su un argomento spinoso: è corretto riscrivere i grandi testi del passato, siano essi in prosa o in poesia, nella lingua che parliamo oggi? Merita una precedenza metodologica l'autore che ha scritto quelle pagine o il lettore che oggi le riscopre? Perché di questo si tratta: decidere il senso di marcia: sono il Don Chisciotte di Cervantes o i Canti di Leopardi a doversi muovere verso il loro lettore o, piuttosto, non spetta a quest'ultimo avvicinarsi ad essi?Le due opere menzionate sono quelle da cui scaturisce la riflessione di Mara Abbafati, che si interroga proprio sull'opportunità della riscrittura del romanzo di Cervantes da parte di Andrés Trapiello e dall'edizione dei Canti del poeta di Recanati con parafrasi a fronte (anche se certamente non una parafrasi scarna di impronta scolastica) a cura di Marco Santagata. Sarà comunque capitato a tutti, una volta nella vita (fuori o dentro scuola), di trovarsi di fronte opere del nostro passato letterario affiancate dalla loro trasposizione in italiano contemporaneo.
La questione è molto complessa, e mi piacerebbe capire cosa ne pensiate, anche dopo la lettura del pezzo citato e di quelli linkati dall'autrice. Io, dal canto mio, - ormai chi mi segue lo sa benissimo - sono scudiera del rigore e del rispetto per l'autenticità del testo. Sono una filologa, che ci volete fare? Per questo non posso vedere di buon occhio la traduzione di un classico, se questo è già scritto nella lingua di destinazione.
Tuttavia, non volendo alimentare polemiche (ci mancherebbe che mi mettessi a lapidare Santagata) ma invitare alla riflessione, cercherò, come al solito, di avvalermi di considerazioni tecniche per spiegare perché io non sia favorevole a questo genere di operazioni editoriali e le ritenga causa di impoverimento critico e culturale.
Innanzitutto, la letteratura ha un linguaggio specifico, motivato e funzionale. Ciò significa che l'autore seleziona accuratamente le parole e le strutture sintattiche da utilizzare, poiché esse rispondono ad un progetto con uno scopo specifico, sia in termini di finalità dell'opera (cosa vuole produrre) sia dal punto di vista della sua destinazione (a chi si rivolge). Ciò è tanto più vero se parliamo di poesia, un settore della letteratura in cui nulla è lasciato al caso e in cui ogni scelta verbale deve combinarsi con quelle retoriche e metriche. Abbiamo già notato come la metafora pascoliana sia svilita nell'italiano corrente che ne illumina il senso. E già questo è un problema della parafrasi, anche a scuola: fino a che punto sciogliere gli artifici retorici?
J. Wolstenholme, Tenere i fili
In seconda battuta, dobbiamo considerare che la letteratura, come tutta l'arte, nasce in una dimensione storica. La conoscenza del suo contesto è spesso fondamentale per interpretarla, e il contesto della letteratura non è solo quello degli eventi che attorniano l'autore o che lo coinvolgono, ma anche quello della sua cultura, che ha nella dimensione linguistica e stilistica una cifra caratterizzante. Riscrivere i classici sulla base del vocabolario e della fraseologia di oggi costituisce una sorta di tradimento, laddove dovremmo, invece, salvaguardare la tradizione.La padronanza di un testo letterario, insomma, va ben al di là della sola comprensione verbale (se così non fosse, basterebbe un vocabolario per risolvere qualsiasi inghippo). Comprendere e, quindi, apprezzare un testo è possibile se lo si contestualizza e se le scelte espressive (verbali, sintattiche, retoriche) vengono colte e motivate. Annientarle con una riscrittura o con una parafrasi non significa rendere accessibile il testo, ma livellarlo e togliergli significatività, quindi svuotarlo del suo valore letterario. Per tornare all'esempio pascoliano, si riduce la pregnanza di una metafora ad una banalissima frase espressiva quanto la lista di una spesa.Il punto è che sostituire un testo alla sua traduzione significa eliminare il testo. Significa legittimare l'idea che la letteratura, nella sua essenza, sia inutile come certo senso comune vuole far pensare. Così facendo, si perde il senso del contatto diretto con i testi, preferendo ad essi i paratesti: non leggiamo Dante, ma quello che Tizio ha scritto su Dante, riteniamo Tasso troppo difficile, allora lo leggiamo nella parafrasi di Caio, arranchiamo di fronte ad una pagina dei Promessi Sposi e ci affidiamo al riassunto online stilato da Sempronio. Magari questi Tizio, Caio e Sempronio sono grandi studiosi, e nessuno vuole negare loro meriti e stima, ma rimangono comunque figure che noi usiamo come interpreti e della cui voce spesso finiamo per accontentarci. E tralasciamo le letture dozzinali da telefono senza fili in cui ricade chi cita a destra e a manca senza avere idea del contenuto del testo i cui parla per interposta persona.
Ora, i motivi per cui un lettore è portato a leggere Ariosto in parafrasi anziché in originale sono almeno due: non lo comprende perché non ne ha gli strumenti o vuole comprenderlo ma rifiuta la riflessione complessa e il lungo tempo che essa richiede. La base comune di questi due problemi è l'impegno che il testo letterario richiede, tanto più intenso quanto più il testo è lontano nel tempo, tanto più grande quanto più alto è il suo livello artistico. Ma esistono delle soluzioni, riassumibili nel riconoscimento dell'importanza dell'educazione letteraria e umanistica, sempre più snobbata. Checché se ne pensi, le discipline come la letteratura, l'arte e la filosofia educano alla complessità non meno della matematica e della fisica, proprio per la loro non-immediatezza. Lo studio della lingua e della letteratura - poiché è questo che ci interessa oggi - permette l'acquisizione di numerosi strumenti atti ad allenare l'analista del testo, dalla semplice ricerca sul vocabolario al riconoscimento degli artifici retorici (che non vuol dire, banalmente, imparare la definizione di 'sineddoche', inutile se poi non si è disposti a chiedersi quale effetto produca nel contesto in cui è utilizzata), dall'interpretazioni di costruzioni sintattiche complesse alla padronanza delle varietà diastratiche e diacroniche di una stessa lingua, dei tecnicismi e dei poetismi. Con questi strumenti ci si allena alla lettura dei testi e, più ci saremo esercitati, più saremo autonomi nell'approccio ad una poesia di Cielo d'Alcamo o di Montale, ad un trattato di Machiavelli o ad un saggio di Calvino, senza che la distanza temporale fra questi autori e i loro testi costituisca un ostacolo. Occorre la tecnica, e questa non si acquisisce se non con l'impegno, fermo restando che le inclinazioni naturali permettono il raggiungimento di diversi livelli di competenza testuale. Ma sbraitare sull'inutilità della cultura letteraria e poi pretendere ed elogiare la parafrasi a fronte è una contraddizione.
J. Wolstenholme, Contesa letteraria
Il filtraggio del testo non divulga cultura, ma feticci di cultura, fa moltiplicare i paratesti che soffocano il testo in nome della democratizzazione della letteratura stessa. Tradurre Leopardi nell'italiano della conversazione quotidiana del XXI secolo per ampliare la platea dei suoi lettori significa, di fatto, privare Leopardi dei suoi lettori, che vengono dirottati sul redattore della parafrasi, che può essere ottima, ma non è Leopardi. Questo dirottamento è un dirottamento sulle auctoritates, su quelle letture preconfezionate che apparentemente offrono certezze e, in realtà, consolidano le opinioni e le visioni di pochi, lasciando atrofizzare la mente, libera dall'incombenza di ragionare. Con tutto il rispetto per Santagata (poiché sua era la riscrittura citata in partenza e non certo per accanimento), leggendo la sua riscrittura dei Canti noi leggiamo Santagata, non Leopardi. Ciò non significa che si debba rifuggire dal suo testo, ma, semplicemente, che ci allontaniamo da Leopardi e che di tale lontananza dobbiamo essere consapevoli.È un po' come con le traduzioni da una lingua A ad una lingua B: dobbiamo sempre sapere che qualcosa, inevitabilmente si perde (soprattutto in poesia). Tuttavia, se una traduzione vera e propria è un mezzo spesso necessario per accedere ad un testo in una lingua che non conosciamo, nel caso di una riscrittura nella stessa lingua di partenza che noi parliamo si produce soltanto un impoverimento. Il lettore ha davvero bisogno che sostituiamo tutte le occorrenze di 'rimembrare' con 'ricordare'? Non sarà più rispettoso e democratico spiegare le sfumature di parole che appaiono come sinonimi per aiutarlo a capire perché Leopardi, che conosceva e usava senza problemi il verbo 'ricordare', scelga l'alternativa più ricercata? Ecco, la semplice sostituzione del termine recentiore a quello antico e desueto mi dà l'idea di un voler imboccare un bambino incapace di portarsi la forchetta alla bocca anziché insegnargli a farlo da solo.
Non contiamo poi che la pregnanza del fascino artistico della letteratura è data anche dalla percezione, da parte di noi lettori di oggi, di un'aura 'mistica' alimentata dalla sua antichità e dalla sua distanza da noi: la poesia sa di poesia perché produce un effetto straniante rispetto al quotidiano modo di esprimerci, la letteratura ha in sé la malia di qualcosa che appartiene ad un altro tempo e ad un altro luogo. La letteratura è, dunque, una sfida, un'esplorazione, e la grande risorsa di cui dispone è l'alterità, che, per gran parte della nostra storia, è anche (ma non solo) un'alterità linguistica. Ed è questa la critica che anche il linguista Pier Vincenzo Mengaldo, nell'articolo Le traduzioni pericolose, scritto all'indomani della pubblicazione dei Canti curati e riscritti da Santagata (1998), muove agli adattamenti contemporanei dei classici della letteratura:
La seconda <perplessità> è che si pervenga a una sorta di modernizzazione selvaggia, con due conseguenze parimenti pericolose: da un lato che si perda totalmente quella lontananza o alterità che è la condizione stessa della conoscenza, della comprensione (stante quella divaricazione fra il comprendere e il semplice imparare su cui ha insistito il grande storico Bloch): si conosce solo ciò che è diverso da noi, di dentro e di fuori. Dall'altro si porta acqua al mulino di quella perdita del senso della storia che è uno dei marchi peggiori dell' età presente, coprendo con un pietoso velo, proprio nel momento che lo si esaspera, l' elemento base dello sviluppo storico, la storicità della lingua.
J. Wolstenholme, Il passare del tempo
Sto dicendo, con questo, che chi legge la riscrittura di Santagata o di altri studiosi che hanno compiuto operazioni simili alla sua compiono, secondo me, un crimine o si dimostrano indegni della grande letteratura? Naturalmente no. Anzi, è anche un merito avvicinarsi a Santagata, che ha scritto eccellenti pagine di storia letteraria italiana ed è fra i più eminenti studiosi delle opere del Trecento. Voglio solo invitare ad una riflessione sull'importanza dell'approccio diretto alla letteratura, sul valore della difficoltà di comprendere un testo letterario e sulla presenza di altri strumenti che possono aiutare a leggere i testi senza sostituirli con qualcos'altro. Per il lettore che avesse difficoltà a leggere direttamente Petrarca è di gran lunga preferibile un'edizione commentata o corredata di note esplicative dei passaggi e delle figure più complesse; per lo studente che tende a perdere l'orientamento nel testo è più proficuo improntare l'analisi alla ricostruzione sintattica che alla parafrasi che, spesso, si risolve in una pura traduzione verbum ex verbo. Il fatto che un alunno sostituisca 'giacque' con 'si sdraiò' non solo non porta a comprendere il verso «ove il mio corpo fanciulletto giacque» (U. Foscolo, A Zacinto, v.2), ma è controproducente, in quanto cancella dal vocabolario mentale dello studente il verbo 'giacere' e la sua storia linguistica e letteraria, rendendogli difficoltoso anche l'approccio a testi contemporanei in cui tale verbo è usato. Semplificare non è sempre una soluzione lungimirante, ma è spesso una scelta che impoverisce. Lo stesso Leopardi, che oggi si vede così semplificato, scriveva, nel suo Zibaldone (687):Del che mi pare che bisogni stare in somma guardia, tanto più, quanto la inclinazione, lo spirito, l'andamento dei tempi, essendo tutto geometrico, la lingua nostra corre presentissimo rischio di geometrizzarsi stabilmente e per sempre, di inaridirsi, di perdere ogni grazia nativa.Ringraziando lo staff di Cultora per l'interessante spunto di riflessione, vi invito a leggere i loro interventi e i pezzi citati e a condividere qui il vostro pensiero: le riscritture sono più una risorsa o un ostacolo nell'accesso alla letteratura?
C.M. Articolo originale di Athenae Noctua. Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso del suo autore e senza citare la fonte.