La prospettiva di un viaggetto di tre ore con la catorciomobile, io e lei sole solette, mi ha spinta a dare un’occhiata più approfondita al mio parco cd per trovare un’adeguata colonna sonora. Ed ecco spuntare fuori, visto mille volte ma mai ripreso in considerazione, un album che ha ritmato diversi mesi della mia vita passata: Sirena dei Cousteau.
Sirena mi era stato passato da un tizio che lavorava nell’ufficio stampa di un’etichetta discografica. Era il 2002, stando alla data impressa sul cd.
Dei Cousteau all’epoca conoscevo un unico brano – elegante, seducente, ma… ragazzi, te lo ritrovavi dappertutto: nella pubblicità del San Marzano Borsci, nelle colonne sonore di film d’amore e documentari d’avventura, al bar, al supermercato, dal meccanico…
S’intitolava The Last Good Day Of The Year.
Ricordo di aver aperto il booklet di Sirena e di aver pensato: guarda un po’ questi Cousteau, propongono i testi dei loro brani sia in inglese sia in italiano.
Ricordo di essermi attardata a leggere le translations. Roba sopraffina, signori: più che traduzioni, quelle erano interpretazioni personali del translator, frasi trasudanti poesia. Parlavano di sentimenti, di disincanto; somigliavano terribilmente a me in quel preciso periodo.
Ricordo di essere andata alla terz’ultima pagina del booklet per vedere chi caspita fosse l’autore di un lavoro così ben fatto.
Ricordo di essermi sorpresa: il «signor traduttore» (che mi sembrava «signore» pure all’epoca, anche se aveva solo una decina d’anni più di me) era D., comune conoscente mio e del tizio che mi aveva passato il cd.
Pochi anni dopo, D. fece il grande salto e divenne scrittore.
Non ho mai letto libri suoi. Non so perché.
***
Settimana scorsa, a bordo della catorciomobile, mi sono fatta le mie tre orette di voyage in compagnia di Sirena.
Ogni tanto buttavo un occhio al booklet, appoggiato sul sedile del passeggero, e mi stupivo ancora una volta di quanto quelle traduzioni fossero eleganti.
Mi stupivo di quanto quelle traduzioni fossero attuali.
Undici anni dopo, mi ci rispecchiavo come se il tempo non fosse passato.
Talking To Myself è uno tra i miei brani preferiti.
«Four o’ clock in the morning
The lights are on and I’m talk, talk,
talking to myself».
D. l’aveva tradotta così:
«Quattro del mattino
A luci accese io sono solo parole, sto
Parlando a me stesso».
Sapete, mi capita di svegliarmi alle quattro del mattino.
Di accendere la luce, di prendere l’iPad e scrivere.
Essere solo parole.
Parlare a me stessa.
Essere solo parole: uno splendido concetto.
Eppure, sarebbe bello essere qualcosa di più.
E in realtà io non credo di essere solo parole.
Neppure quando scrivo su questo blog.