Capita che mi sia messo a guardare Gomorra La Serie.
E capita che mi sia detto, mentre guardavo, FINALMENTE.
E non è nemmeno la prima volta. La volta precedente è capitato con Romanzo Criminale La serie.
E sebbene io trovi irritante quel “la serie” piazzato lì, come fosse un dovere, per aiutare il pubblico a distinguere dai precedenti film omonimi, già dall’apertura alla “Lost”, nella sigla, non bastassero le parole di uno degli attori protagonisti, Salvatore Esposito, in un’intervista, si avverte che Gomorra aspira a essere, FINALMENTE, prodotto internazionale.
Non preti di campagna.
Non facile moralizzazione e scandali un tanto al chilo.
Non tutori dell’ordine paciocconi e padri di famiglia.
Non dialoghi scritti col Grillo Parlante.
Ma…
Musi duri.
Vite maledette.
Violenze assortite.
Dialoghi serrati, in dialetto napoletano.
Roba sporca.
E scene che fanno male (tipo la tortura ai danni di una ragazza).
Il punto è che stiamo esportando, sul mercato internazionale, non dico ciò che meglio ci contraddistingue, ma ciò che, è innegabile, di più affascina di noi altri abitanti dello stivale: la criminalità organizzata.
Nella fattispecie: la camorra.
Che ha una storia antica.
Noi italiani ce l’abbiamo nel DNA, la criminalità organizzata. Ammettiamolo.
Prima erano Quei Bravi Ragazzi.
Poi i Soprano.
Poi la banda della Magliana.
E infine Gomorra.
Per citare i film e telefilm a base di italiani più famosi nel mondo, se si esclude Don Matteo.
E così, di fronte a questo spettacolo che è Gomorra, riflettevo.
La fascinazione per i personaggi negativi. E quelli di Gomorra lo sono senz’altro, non fanno nemmeno simpatia, come capitava per il Libanese e gli altri di Romanzo Criminale. O per i Soprano. Perché questi ultimi erano personaggi dalle diverse sfaccettature, narrati anche attraverso un certo spaccato quotidiano, attraverso le loro debolezze umane, a fianco alla loro crudezza.
Qui in Gomorra l’idea di narrazione è pura e assoluta: con personaggi immersi sempre, ogni minuto della loro esistenza, in una violenza che monta sulle loro spalle costantemente.
A cominciare dal paesaggio: quelle Vele di Scampia e di altri quartieri problematici che già comunicano, se dobbiamo credere alla capacità del cinema di sussurrare anche senza dir nulla, attraverso la potenza evocativa delle immagini, un degrado atavico, che si percepisce come incolmabile e irrimediabile.
Il telefilm diviene quindi narrazione di un enorme buco nero: che è quello della criminalità organizzata. E dei territori che infesta da decenni.
Ma ciò che soffoca non è tanto il destino di sangue che pende con altrettante spade sulle teste dei protagonisti, quanto i brevissimi spaccati di vita “normale”. Laddove si avverte, negli umili che per destino o per nascita sono costretti a un’esistenza immersiva in territori infernali per l’animo umano, l’assoluta impossibilità di riuscire a evadere da quella quotidianità di massacri e di onore aberrante. Di valori distorti, così estranei a una logica umana.
Serie, tra l’altro, accusata pubblicamente di squalificare il tessuto urbano di Napoli.
Una prigione per la mente. Che impone una distorsione dei valori. Della percezione stessa.
Affascinante, quindi, come poche, che è anche il segreto del successo di questo tipo di rappresentazioni, è la figura del criminale organizzato. Un individuo che viene al mondo e viene educato, perché inserito da subito in tale contesto, a una vita di valori alternativa, che giudica l’aggressività e la violenza quali segni distintivi di indiscusso merito individuale.
Individuo che è ammaliato dalla bella vita, dai soldi facili e dai piaceri terreni, ma che è addirittura dipendente, nel senso di dipendenza mentale, dal potere che gli riesce di esercitare.
Non dimentico, infatti, i pizzini di Provenzano. Il Capo dei Capi costretto a vivere in un tugurio che avrebbe fatto vomitare una capra, incapace e forse persino del tutto disinteressato a godersi la ricchezza accumulata attraverso decenni di soprusi, eppure ancora caparbiamente legato all’abitudine al comando, a disporre, su un piccolo pezzetto di carta, della vita e della morte degli altri.
Sì, può essere una droga, questo quotidiano esercizio del potere.
Ed ecco spiegato il successo del male.
Una narrazione, in Gomorra, che però, diversamente dalle altre serie citate, non cade nella captatio benevolentiae, presentandoci personaggi assolutamente dannati, e assolutamente malvagi, senza speranza alcuna.
E non cade nemmeno nemmeno nella tentazione di narrare un riscatto sociale come metafora di redenzione per quei territori martoriati.
È un telefilm. Fa spettacolo. Non spetta a un prodotto di intrattenimento educare a cambiare mentalità.
Anche se questo ci fa incazzare.
Il risultato finale è un prodotto, italiano, che desta meraviglia. Complimenti.