Non è più un mistero la continua analogia tra il mondo delle malattie e quello della Rete. Uno degli esempi più frequenti è quello legato alla cosiddetta “viralità”, cioè la diffusione rapidissima, transmediale e in misura esponenziale, di un contenuto pubblicato su Internet.
Esistono, e sono stati studiati, precisi pattern diffusivi, per ogni caso in cui questi fenomeni si manifestano in maniera particolarmente incisiva. Molto spesso però, ancora, non si riesce a spiegare perché un determinato contenuto diventi così cliccato.
L’ultimo caso, portato all’attenzione dei media, è quello di un bambino, Michael, che, in un video di circa tre minuti parla dei vermi, con dovizia di particolari e consumato talento divulgativo. Maneggia le bestiole con perizia e tatto, ne illustra l’anatomia e i comportamenti.
In effetti, il video sembra avere tutte le carte in regola per diventare un piccolo “cult”. E oltre 127.000 visualizzazioni in meno di due giorni, non sono forse del tutto insignificanti. Dunque, perché i video diventano virali?
All’apparenza la ricetta è molto semplice: ruolo di chi produce e/o pubblica il video, appropriazione del contributo da parte della comunità, “singolarità” del video stesso. Facile: altrimenti non si spiegherebbe del tutto l’improvvisa notorietà della combinazione tra Diet Coke e Mentos, o il numero spropositato di foto di Noah, che realizza un commovente time-lapse ante litteram, o il ragazzo un po’ sovrappeso che canta Dragostea din tei e spopola. O forse non è così facile?
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