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Parlare in pubblico

Da Gabrielederitis @gabriele1948

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Domenica 30 dicembre 2012

IMPARARE A VIVERE (4)
Aσκήσεις (7): Parlare in pubblico

L’esercizio della parola in pubblico è uno dei più duri da ‘svolgere’. Ad esempio, prendere la parola per trentacinque anni di fronte a una classe di studenti delle Scuole medie superiori, per interessarli a un’ora di Italiano o di Latino, quando chi deve prendere la parola sia una persona timida, è un esercizio di cui non si parla, di solito. Si dà per scontato che ogni insegnante abbia sufficiente ‘faccia tosta’ da affrontare il pubblico studentesco senza affanno o timore. Gli insegnanti sembrano tutti votati alla ‘recitazione’ quotidiana. Pochi sanno che per alcuni di loro è ogni volta di nuovo un compito arduo da affrontare, perché si tratta di vincere insicurezze difficili da superare: si ripresenta ogni volta il timore di arrossire, di incepparsi mentre si parla o di risultare poco chiari o di non avere più niente da dire, soprattutto nei momenti di stanchezza morale, quando si vorrebbe piuttosto stare a casa, magari tra le braccia di qualcuno che fosse disposto a dispensare carezze di ogni genere.

Delle quattro abilità linguistiche fondamentali – ascoltare, parlare, leggere, scrivere -, la meno curata è forse proprio il parlato, a dispetto delle innumerevoli verifiche orali che gli insegnanti compiono per dovere d’ufficio. All’interrogazione tradizionale, pure indispensabile perché fatta di domande specifiche, occorrerebbe affiancare il colloquio basato sul “Parlami di…”, per consentire un più fluente e compiuto discorso.
Dalla parte dello studente si consuma una battaglia permanente che egli ingaggia innanzitutto con il lessico, nello sforzo quotidianamente ripetuto di trovare le parole. Chi non ricorda la fatica della preparazione pomeridiana alle interrogazioni del giorno dopo? C’è chi non abbia tirato un sospiro di sollievo a sentir dire in classe che non sarebbe stato giorno di interrogazioni, anche essendo ben preparato? A chi non è capitato di ritrovarsi a balbettare vicino alla cattedra, nel vano tentativo di restituire il lungo lavoro fatto il giorno prima? Quanto volte si è verificato il caso dello studente che si è ribellato all’insegnante che non ha saputo apprezzare il lavoro svolto a casa, quando però la prova sia stata al di sotto degli sforzi fatti per prepararsi? Quanto tutto ciò dipende dal ‘parlato’, cioè dal fatto che una performance in pubblico non sia cosa scontata?
Per me, si trattava di affrontare un pubblico non sempre benevolo. C’era da superare l’emozione che montava e che non incoraggiava a parlare. C’era la sensazione di non ricordare più niente, che non ci avrebbe abbandonati più, fino alla discussione della tesi di laurea. In me, soprattutto il timore di chi si sente gli occhi addosso e fa voti agli dèi dei rinvii, perché l’esposizione al giudizio altrui è sempre troppa: non avevo ancora imparato ad affrontare il pubblico mentre parlavo. Fare le due cose insieme – pensare a ciò che doveva esser detto in modo chiaro e farlo senza impaccio – era decisamente troppo!
Eppure, ho attraversato il mio deserto, il deserto delle mie aspre solitudini, senza indietreggiare mai: ho accettato per decenni di arrossire davanti a tutti e con la morte nel cuore ho continuato a cercare le parole.
All’altezza del primo liceo, ho deciso che dovevo mettermi a parlare in Italiano in casa, dove si parlavano ben tre diversi dialetti: quello dei miei genitori, quello dei primi tre figli, quello del quarto figlio. Naturalmente, tutti mi prendevano in giro e mi giudicavano aspramente: erano convinti del fatto che ostentassi uno spirito di superiorità nei loro confronti, essendo un liceale! Nessuno comprese il mio dramma privato.
Anche se nessuno mi insegnava ad ascoltare, a parlare, a leggere, a scrivere, io dovevo comprendere i meccanismi della lingua, della grammatica, dello stile. Non sapevo ancora cosa fosse la pragmatica, cosa la semantica. Non avevo scoperto ancora Estetica, Filosofia del linguaggio, Linguistica generale, Linguistica testuale… Ogni progresso nella conoscenza e ogni voto lusinghiero equivalevano a una promozione sociale per me, non solo alla promozione scolastica, a un incremento del profitto.
All’Università avrei fatto le scoperte maggiori, proseguendo il lavoro avviato su di me. Mentre mi accingevo a sostenere gli Esami che avevano a che fare con la Lingua, il Testo, il Linguaggio, pensavo a quello che avrei fatto in classe con i miei alunni, per aiutarli a progredire come animali parlanti: sarebbe stato quello il mio risarcimento.  Avrei assunto come termine di confronto, per generare l’indispensabile dissonanza cognitiva, la condizione in cui versavo io come studente di liceo prima e universitario poi.

La fluenza del parlato, con il ritmo che pure richiede, non è capacità che si possiede e basta. Contribuirà ad accrescerla la tendenza ad imitare gli adulti a casa, se questi parlano in Italiano. Fu decisivo per me scoprire quanto sia importante accettare la propria voce. Un ragazzo non si rende conto fino in fondo quanto possa costituire un ‘freno’ all’espressione libera di sé la non accettazione della propria voce. A tutti i miei alunni ho suggerito la riflessione privata su questo punto: occorre allenarsi ad ascoltarla, fino ad arrivare a provare piacere a sentirla.
Dare alla voce un’intonazione durante la lettura di un testo, cercando di rendere il senso, alla maniera degli interpreti di professione, gli attori e i dicitori, è forse una delle ultime cose da fare, ma si avverte in ogni momento che ‘interpretare parlando’ è indispensabile per far capire a chi ci ascolta che il testo ci appartiene, ha influito sulla nostra sensibilità, ne abbiamo compreso il senso. Un esempio chiaro di questa difficoltà è dato dalla lettura de L’infinito di Leopardi. Per decidere fino a che punto fosse da premiare un ragazzo di quinta liceo che affrontava l’Esame di stato, mi sono limitato sempre a far leggere i primi versi de L’infinito. Dicevo soltanto: voglio sentire come leggi. La voce di una persona ci rivela più di quanto il parlante non sappia!

I miei alunni mi prendevano in giro affettuosamente dicendomi che la mia voce era soporifera. Naturalmente, cercavo di essere caldo e rassicurante e fermo e sereno… Inutile dire quanto fossi sicuro di aver raggiunto negli ultimi anni di insegnamento un livello alto di consapevolezza di quello che accadeva durante l’ora di lezione.

Soltanto negli ultimi anni di insegnamento ho capito quanto incida l’improvvisazione nella conduzione della classe durante la ‘lezione frontale’. Lungo tutta la mia carriera, non ho fatto altro che studiare per arrivare in classe pronto su tutto. L’intera estate era dedicata alla preparazione del Progetto didattico per l’anno scolastico successivo. Al mare o in montagna, avevo sempre i miei libri con me. Fermo restando che lo studio è indispensabile, sbagliavo a pensare che non si debba mai improvvisare! che tutto debba essere previsto!
Uno dei momenti più importanti della mia vita è stato la scoperta dell’improvvisazione, della necessità di improvvisare. Quando andiamo a un appuntamento importante, con una donna o per un posto di lavoro, al Centro d’ascolto per un colloquio, in un luogo in cui non siamo stati mai, per parlare con qualcuno che non sappiamo ancora se ci accetterà oppure no, noi siamo ‘esposti’, perché non sappiamo cosa dire. Non sappiamo bene quello che diremo, con quali parole, con quanta efficacia… Massimo Cacciari parla dell’arrischio della relazione, per significare questo essere in prima linea, senza difese o protezioni di sorta. Non siamo in pericolo, ma ne va della nostra immagine, dell’idea che l’altro si farà di noi: temiamo di non riuscire a far intendere quello che ci preme di più l’altro sappia.

Oggi so quanto sia inutile consegnare ad un incontro occasionale e fortuito il senso di sé, preoccuparsi di deludere l’altro: è fin troppo facile che accada! Ci si salva solo pensando alla fragilità del bene, a quanto dipenda dall’altro il significato che vorrà attribuire alla nostra esistenza. Attraverso le nostre ‘parole’ trasparirà comunque ciò che siamo.

Imparare a vivere attraverso l’esercizio della parola, imparando a parlare in pubblico. Per ascoltarsi vivere. Per conoscere la propria anima attraverso la sua capacità di divinare dal fondo enigmatico e buio da cui parla. Per imparare ad accettare il bene e il male che ne verranno da ciò che gli altri vorranno restituirci di noi.
Molti ragazzi affetti da tossicodipendenza mi hanno rivelato che hanno fatto ricorso alle sostanze per trovare il coraggio di parlare davanti agli altri. Al termine di lunghi percorsi segnati dai necessari processi riparativi e ricostruttivi della persona, tutti i ragazzi  hanno dichiarato sommessamente: ho imparato a parlare in pubblico senza paura. A loro è dedicata la maggior parte degli sforzi che faccio per essere una persona migliore, da ventitré anni.

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Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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Leggere anche

Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale

Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo

Aσκήσεις (3): La dissimulazione onesta

Aσκήσεις (4): Strategie di apparizione

Aσκήσεις (5): I nostri Esercizi

Aσκήσεις (6): Di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda d’amore


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