“Excuse me, where is the Roman temple?”. “Temple, old, archaeology, excavations, where?”. Niente da fare, non ci capiva nessuno nel villaggio di Al-Maraqi ai limiti dell’oasi di Siwa, nel deserto occidentale egiziano. Nessuno capiva le parole inglesi, noi non parliamo né l’arabo né il siwi, e probabilmente eravamo i primi dopo chissà quanto a cercare quel tempio. D’improvviso vediamo un vecchietto: “Iskander?”, ci chiede. Sì Iskander, proprio lui! “Dove?”. “Di là!”. Il tempio era a due passi da noi ma senza Iskander, il Grande Alessandro, non l’avremmo mai trovato. Eppure è un tempio dell’età di Traiano che con Alessandro non c’entra nulla. Però negli anni Novanta è giunta qui una signora greca con molti soldi e molto tempo da spendere, ha scavato non si sa come e a un certo punto ha annunciato ai quattro angoli del globo di aver finalmente trovato la tomba del Grande sotto quel tempio. Ha fatto mille pasticci, quella greca signora che risponde al nome di Liana Souvaltzi: pretendeva di leggere il nome di Alessandro ovunque, anche dove epigraficamente lo spazio non lo consentiva, o erano chiaramente scritte parole diverse come “basileus” o altro. Ha pasticciato al punto che è stata cacciata dallo scavo, il tempio è tutt’ora recintato da filo spinato, abbiamo dovuto insistere col guardiano per poterlo visitare (tra l’altro, è una costruzione veramente molto interessante) e ci è stato proibito di scattare foto.
Liana Souvaltzi però ha fatto la fortuna di quel villaggio: bastava pronunciare il suo nome perché i volti s’illuminassero. Anche nel “centro” di Siwa: evidentemente era simpatica, gentile, generosa. Tutti le vogliono ancora bene, e tutti continuano a credere che quello è davvero il tempio eretto per Alessandro. Il grande conquistatore raggiunse l’oasi per consultare il famoso oracolo di Ammone che gli rivelò che lui era figlio del dio: è dunque consequenziale credere che, come si disse già in antico, egli abbia espresso il desiderio di essere sepolto proprio lì e che qualcuno abbia cominciato a costruire per lui un tempio. In fondo è possibile, no? E a pensarci bene, cos’è peggio: lo scavo approssimativo della Souvaltzi che ha reso tutti felici, o l’oblio attuale che fa cadere tutto in rovina? A parte quel tempio “incriminato” e i due siti archeologici più famosi dell’oasi – il tempio dell’oracolo di Ammone e la necropoli di Gebel al Mawta, la “montagna dei morti” – non abbiamo trovato guardiani in nessuno dei moltissimi luoghi dell’oasi con tombe o insediamenti antichi. Ci sono siti veramente notevoli ma abbandonati e in balia del più totale degrado. Almeno Alessandro, il solo pronunciare il suo nome, tiene tutto in vita. Il suo mito è potente al punto da saper costruire realtà, ancora oggi. Un mito che lui stesso ha abilmente forgiato e i suoi generali hanno saputo perpetuare. Primo fra tutti Tolomeo, il più astuto, che si è aggiudicato il corpo e l’ha portato con sé in Egitto.
L’ha sepolto a Menfi, ma il suo successore l’ha portato poi ad Alessandria, la città fondata dal Grande e resa capitale dai Tolemei. Re e imperatori hanno reso omaggio nei secoli alla preziosa tomba alessandrina, finché l’eclissi del paganesimo antico la cancellò. Già nel IV secolo d.C. non si sapeva più dove fosse, e da allora non si è mai cessato di cercarla. Il vero errore commesso da Souvaltzi, prima di ogni sua fantasia storica e archeologica, è stato cercare la tomba fuori da Alessandria: la tuttora potente comunità greca della città non glielo ha perdonato. Ma forse anche i greci di Alessandria dovrebbero concedersi un po’ più alla fantasia e assecondare l’eroica e imperitura esaltazione del Grande, pur nella consapevolezza che la sua tomba non si troverà mai. Perché questo non è più il tempo della nostalgia artefatta. Alessandria è stata e forse in futuro sarà nuovamente città nostalgica. Lo è stata quando nell’antichità ha creato Museo e Biblioteca per ordinare e sistematizzare il sapere passato, piuttosto che lanciarsi in nuove ardite creazioni. E lo è stata di nuovo nel secolo scorso, quando il suo vivacissimo cosmopolitismo non bastava comunque a chi vagheggiava maggiori glorie antiche. Allora in città si viveva bene, molto più che altrove nel mondo, ma si percepiva comunque una mancanza. Così si cercava perennemente qualcosa, per quanto impalpabile e indistinto, e quella ricerca era vibrante e magnetica: era la cifra della città. Poi però Nasser ha stravolto quel precarissimo equilibrio, e negli ultimi anni Alessandria è lievitata a dismisura, invasa dai fellah delle campagne. In pochi decenni è diventata un’altra, e c’è solo il mare a ricordare quel sapore mediterraneo che la rende comunque coesa e solidale, benché sia oramai una metropoli immensa e caotica. C’è ancora vita sociale nella grande Alessandria, c’è umanità e apertura verso gli altri. Per questo è bella, nonostante il grigiore dei vecchi gloriosi palazzi oramai cadenti. E’ bella però anche perché è viva e vibrante. Guarda al futuro, per quanto incerto e forse preoccupante. È conquistatrice come lo fu Alessandro. Per questo è difficile e forse inutile cercare di salvare le tracce delle glorie passate, come fanno i pochi nostalgici rimasti a mo’ di naufraghi aggrappati a una trave nel mare in tempesta. Meglio buttarsi nella tempesta, magari lanciando un sogno ancor più tempestoso: Alessandro, Iskander. Mito per tutti, anche per gli egiziani convinti che egli non abbia affatto fondato la città ma che questa esistesse già da secoli. Comunque la ricerca di Alessandro potrebbe ancora salvare qualche luogo antico della città, ora perlopiù sommerso dal nuovo informe. Noi ci siamo divertiti un mondo a cercare i presunti luoghi della tomba di Alessandro: a scendere nei sotterranei della moschea di Nabi Daniel o ad ammirare quella di Attarin che ospitava il famoso sarcofago in breccia verde ritenuto per secoli la sua tomba, finché la decifrazione dei geroglifici consentì di leggervi il nome del faraone Nectanebo II. Abbiamo ammirato con occhio indagatore le molte costruzioni antiche emerse dalla collina di Kom el-Dikka o le tombe di Anfushi. E abbiamo cercato quella possente tomba di alabastro che, se non è appartenuta ad Alessandro come ha creduto Achille Adriani, era sicuramente di qualcuno molto importante. Ho tremato nel toccare quella pietra perfettamente levigata. A pensarci, percepisco ancora il freddo sui polpastrelli. Il mito è così potente da insinuarsi anche in chi non crede: io percepivo di trovarmi in una sorta di fulcro, un polo magnetico, quasi un ombelico del mondo, anche se intorno a me c’erano solo incuria e rovi. E allora perché non portarvi turisti e scolaresche, egiziani di ogni credo e ogni età? Perché non fare di Alessandro, ancora una volta, la molla propulsiva di una città alla ricerca di una nuova identità? Iskander, basta la parola in questo lembo occidentale d’Egitto che proprio Egitto non è. Basta tra i berberi siwani come tra gli alessandrini moderni. Tra poco non ci sarà più nessuno in città a parlare indifferentemente arabo e greco, italiano e francese e inglese, com’era abitudine un tempo. Si parlerà solo l’arabo, e la mediterranea Alessandria rischierà di perdere se stessa. Le serve una luce, un nuovo faro dopo il crollo di quello antico, meraviglia del mondo. Le serve Iskander.Effe