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Quella guerra pulita che piace all'Occidente.
In guerra l’essere umano diventa trasparente. Lo puoi osservare. Leggere. Lui lascia fare. In una situazione normale, di pace, uno ti direbbe: “cos'hai da guardarmi, toglimi gli occhi di dosso”. In guerra lo sanno tutti che non c'è nulla da nascondere. Puoi dissimulare, mentire, manipolare: nasconderti, no. L'uomo trasparente non è più calato dentro una società le cui regole era abituato (chi più chi meno) a rispettare, a fare proprie, a dare per scontate. L'uomo trasparente non ha più legge: in guerra non c'è una legge da rispettare o da fare rispettare. L'uomo trasparente è l'immagine più realistica che riusciamo a cogliere con gli occhi: immagine di noi stessi. Quella che rincorriamo e ricerchiamo nei libri di storia, in quelli di filosofia, nella finzione, nei polizieschi, nelle trame d'amore e d'avventura, nell'orrido, nei serial killer. Cerchiamo, tutti, questa trasparenza degli altri nei quali scoprire, riconoscere e accettare (ma questo è un passo ben più arduo) noi stessi. Eccolo li', davanti a noi, l'essere umano improvvisamente ridotto ai termini minimi della sua esistenza. La guerra è la manifestazione dell'estremo che si esprime non nelle categorie a noi (fin troppo) care del bene da una parte e del male dall'altra, utilizzate per disinnescare l'ordigno che abbiamo dentro. La guerra genera la sovrapposizione spaziale e temporale dell'estremo: il bene e il male fusi insieme dentro la stessa persona nello stesso istante. In guerra osservi individui compiere atti di annientamento totale dell'altro; e vedi individui incarnare azioni di dedizione assoluta all'altro. Capita – terzo e ultimo e più imbarazzante scenario – di vedere lo stesso individuo fare entrambe le cose. Come la mettiamo?
Sulla guerra esiste una abbondante letteratura: da Omero ai reporter contemporanei. Mi sono portato due libri in valigia, di Anthony Loyd (The Times) e Chris Edges (New York Times e altri). Titoli (traduco dall'inglese): “La mia guerra è finita, mi manca tanto” e “La guerra è una forza che dà senso alla nostra vita”. Ohohoh. Spalancano entrambi una finestra che dà su una voragine. Il baratro senza fine che è la condizione umana. Lo fanno scegliendo un titolo che volutamente evita la fin troppo scontata deprecazione della guerra. Al contrario: ammettono di essere soggetti a una forma di dipendenza, che nei loro volumi spiegano con dovizia di particolari. Nessuno dei due ne parla, ma dalla lettura si conclude che la dipendenza non è generata dall'adrenalina, dal sangue, dalla brutalità, dai macelli dell'ex Jugoslavia, del Sud America e del Medio Oriente. Troppo facile: significherebbe ribadire un cliché senza fondamento. Credo invece, da una ottica mia, che si tratti di dipendenza nei confronti dell'uomo trasparente che la guerra rivela.
Incontro due ragazzi siriani, con lo stesso nome: Mustafa. Mustafa numero uno mi confida, senza giri di parole, che agli Alawiti (sciiti della stessa setta religiosa del presidente Assad) va tagliata la testa. E che gliela taglieranno, perché hanno vissuto per quarant'anni a spese dei sunniti. Il ragazzo, che è stato torturato brutalmente dal regime (“i miei organi genitali sono stati massacrati”), spiega che combattere, per lui, significa sacrificarsi per la libertà e i diritti di tutti. Un tagliagole democratico? L'altro Mustafa mi spiega che, quella siriana, è una guerra di religione: l'obiettivo è la costruzione di uno stato islamico. Continua, tuttavia, aggiungendo che è anche una rivoluzione dei poveri contro i ricchi, degli sfruttati contro gli sfruttatori. Estremista islamico o Robin Hood?
Ho l'impressione che questi ragazzi siano capaci di tutto: dell'atto più efferato così come dell'azione più altruistica. Che cosa li ha messi in questa posizione? Il loro passato (breve: hanno 20 anni), la propaganda, l'indottrinamento? Forse. E' stata, soprattutto, la guerra. Quella vera, non quella che ci piacerebbe venisse combattuta. La guerra sporca, sanguinaria, crudele e terribile. Non quella a cui chiediamo di rispettare (di incarnare, addirittura) le regole della ragione e della pietà, di rispettare la legge. Per tornare ai libri di Hedges e Loyd: descrivono la guerra com'è, un assordante, terrificante scatenamento. Questa è la guerra. Il resto, tutto il resto, è come ci piacerebbe che fosse, come ci fanno credere che possa essere: regolata, quasi pulita, rispettosa, intelligente, onesta. Umana. Sì: umana. Se qualcuno mi chiedesse qual è la bugia più clamorosa prodotta dall'epoca post-moderna, risponderei: la balla della guerra umana. Meglio: l'idea che ci possa essere una guerra umanamente accettabile. Anzi, tolgo i congiuntivi: l'idea che c'è una guerra accettabile e una, invece, che non si puo' accettare. Una guerra guardabile e una inguardabile. Una guerra legale e una illegale. Quindi, da perseguire con la legge.
Lo scrivo: sono contrario alla Commissione d'inchiesta dell'ONU sui crimini di guerra e contro l'umanità commessi in Siria. E per spiegarmi la faccio breve. Sono contrario perché: 1. Una commissione di questo tipo nasce dal presupposto sbagliato: che ci siano o possano esserci guerre combattute senza commettere crimini (solitamente sempre “le nostre”, mai quelle degli altri). 2. E' un'iniziativa parziale e frettolosa: il mondo è stato a guardare le prime espressioni pacifiche della rivoluzione in Siria senza fare nulla, anzi, sperando che il regime di Assad ne uscisse indenne. Abbiamo messo in dubbio, dall'inizio, l'autenticità dei filmati che provenivano dalla Siria, con un marchio quasi infamante: “non possiamo garantirne la veridicità”. Come dire “sono arabi, non ce la raccontano giusta”. Abbiamo lasciato che, in Siria, la gente precipitasse nel baratro, ben sapendo quali sarebbero stati gli scenari a venire. A guerra (a macello) in corso, decidiamo quindi di metterci una pezza: così una guerra non si combatte, signori, non va bene, state esagerando, ci date fastidio e vi puniremo. 3. Il mondo, in Siria, c'è dentro fino al collo. L'Occidente, il Medio Oriente, l'Oriente. Ci siamo dentro tutti. Ciascuno con la propria interessata visione di quello che verrà. Ciascuno con le proprie bugie. E le proprie armi. Da piazzare. Da vendere. Con i fondi da stanziare (ai ribelli, al regime). E le parti da sponsorizzare.
Anche la Svizzera ci mette la sua, di pezza. In Siria si lanciano granate a mano prodotte nella Confederazione. L'Inchiesta federale ha concluso – poteva andare diversamente? - che erano state vendute in buona fede agli Emirati Arabi Uniti (l'avete data, da Berna, un'occhiata alla situazione dei diritti umani negli Emirati?) e che chissà come ora esplodono e fanno a pezzi la gente in una guerra vera. Il detersivo lavapiùbianco elvetico (prestato alla comunità internazionale salita sulle barricate di un riscoperto umanesimo) si chiama Carla Del Ponte. La sua missione, svolta a fianco di tre colleghi, parte condizionata da troppe zavorre. Da un “adesso arrivo io” fuori posto e stonato di fronte al massacro in corso, una febbre della ribalta celebrata, senza riserve, dalla stampa (ho sentito paragoni quasi biblici, mi auguro che la signora Del Ponte abbia provato imbarazzo). Dal coinvolgimento attivo sullo scenario siriano di buona parte dei paesi che sponsorizzano la Commissione d'inchiesta ONU. Dal silenzio dell'ONU e del mondo su troppe altre guerre etichettate come “giuste” o “legali”, al punto da ignorare i massacri compiuti dai soldati occidentali, dai paramilitari delle ditte di sicurezza straniere (contractors), il cieco pressapochismo dei droni (aerei senza pilota) in Iraq, Pakistan, Afghanistan, Yemen, eccetera. E, per finire, dalla convinzione opportunista e ipocrita che ci possa essere (ci sia, “c'è!”) una guerra che non sia un crimine contro l'umanità. Una guerra fatta come si deve. Pulita. Organizzata. Accettabile.
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