Mi sentivo decisamente meglio.
Ero ancora nella mia stanza, stavo terminando di mettere nel borsone tutte le mie cose. Di lì a poco il dottor Stevens sarebbe venuto a salutarmi e a farmi firmare le scartoffie necessarie per le mie dimissioni.
I sei mesi che avevo trascorso in quella clinica non erano stati poi così terribili. Piuttosto costosi, sì: d’altra parte era un rifugio dove i ricchi potevano guarire dai loro esaurimenti nervosi privilegiati. Ebbene, io avevo guarito il mio, pareva. Era giunto il tempo di andarsene.
“Starà benone, signor Doyle”, disse con tono cortese il dottor Stevens, entrando nella mia stanza.
“Mi chiami Paul, dottore…abbiamo passato insieme così tanto tempo qui dentro che posso tranquillamente affermare come lei sia un amico, ormai, oltre ad essere il mio strizzacervelli preferito!” risposi, sorridendogli, mentre chiudevo la zip del borsone.
“D’accordo signor Doyle, anzi Paul, mi raccomando però …torni qui la prossima settimana per una visita di controllo e si riposi. Se la prenda con molta calma, niente lavoro per almeno un paio di mesi, ok?”
Il dottor Stevens mi piaceva. Un uomo sincero, un infaticabile professionista totalmente immerso nella sua professione. Mi identificavo con lui.
“Promesso. Mi creda, sono consapevole di quanto mi è accaduto. E soprattutto di come sia accaduto. Devo sempre ricordarle che sono stato io a farmi ricoverare spontaneamente nella sua clinica?”.
Lui sorrise. “E a me non piace doverle sempre ricordare come una delle ultime cose che ha fatto là fuori sia stata quella di inveire contro un personaggio di uno dei suoi libri mentre era seduto al ristorante”.
“Bè…sì…mi sono un po’ lasciato prendere la mano. Ma fa parte del mio modo di scrivere, i miei personaggi devono sempre sembrarmi reali”.
“Questa volta, Paul, lei ha superato il limite tra realtà e fantasia. Devo essere certo che abbia elaborato questo fatto prima di lasciarla andare con serenità”.
“Ha ragione” – affermai annuendo – “L’ho oltrepassato. Ma solo momentaneamente. Avevo lavorato troppo. Adesso sto bene, davvero. Non succederà più”.
Il dottor Stevens mi fece strada verso l’uscita.
“Si ricordi, Paul, della percentuale che mi spetta qualora nei suoi libri dovesse utilizzare qualcuna delle mie idee…altrimenti dovrò farle causa!”, mi disse facendomi l’occhiolino.
Mi fece ridere.
“Caro dottore, se solo sapesse. Gira e rigira dietro ad ogni dentista, impiegato, fattorino o avvocato si nasconde uno scrittore con una riserva illimitata di fervide idee!”
“Lei ha un grande talento, Paul. Ma non oltrepassi la linea di confine, d’accordo?” concluse il dottor Stevens, congedandomi.
Era fatta. Stavo facendo rientro nel mondo reale. Appena fuori dalla clinica incrociai Brooke, l’infermiera che si era occupata di me durante la degenza.
“Signor Doyle” – mi disse, arrossendo un pochino – “da quando è arrivato non ho mai avuto il coraggio di chiederle una cosa. Me lo fa un autografo?”
Teneva tra le mani, porgendomelo, una copia de Il piacere di uccidere, il mio ultimo romanzo, che stava ancora vendendo bene, nonostante fosse trascorso più di un anno dalla sua uscita.
“Un libro meraviglioso e avvincente, signor Doyle, l’ho letto due volte. Conosco i nomi di tutti i personaggi a memoria! E poi il protagonista, lo spietato assassino Johnny il Biondo, è formidabile, nella sua malvagità letteraria, s’intende. Mi sembra quasi di conoscerlo…è così reale nelle sue descrizioni…che…pensi…non mi sorprenderei di incontrarlo per la strada!” disse Brooke con entusiasmo, mentre il leggero rossore sulle sue guance aumentava a vista d’occhio.
Era una ragazza così carina. Prima che avessi il tempo di chiedergliela, mi diede anche una penna. Le sorrisi, presi il libro e glielo restituii firmato e con una dedica.
“Io l’ho incontrato Johnny il Biondo. Credimi, Brooke, non te lo consiglio!”.
Lei trasalì. “Mi dispiace, signor Doyle, non volevo….”. Poi si rasserenò: “Ahhh….lei mi prende sempre in giro! Abbia cura di lei, io aspetterò con ansia il suo prossimo libro!”.
Durante il viaggio in taxi verso casa, pensai alla storia che avevo in mente. Mi tormentava da settimane, chiedendo di essere scritta. I particolari stavano prendendo forma e i pezzi del puzzle si stavano incastrando alla perfezione, pronti per essere messi su carta. No…no…l’avevo promesso al dottor Stevens. Niente lavoro. Per il momento tutto doveva rimanere lì, nella mia testa.
Stavo rientrando nel mio appartamento, finalmente. Il mio rifugio. Dafne se n’era presa cura durante la mia assenza. Ormai stavamo insieme da quasi cinque anni. Le piante sul terrazzo erano cresciute e fiorite. Il frigorifero era pieno. Un post-it appuntato sul pc mi avvisava che Dafne sarebbe arrivata alle otto, portando la cena. Era stupendo essere a casa. Tutto era di nuovo al suo posto.
Avrei avuto mille cose da fare, ma potevo e dovevo aspettare. Prima una doccia, poi un sonnellino sul divano. Per la prima volta, dopo tanto tempo, ero io a condurre la mia vita. Quel periodo oscuro era finito, grazie alle premurose cure del dottor Stevens. Non c’era bisogno di rivangarlo, mai più.
“E’ fantastico averti di nuovo qui! Stai proprio bene, sai?”
“Sto davvero bene, Dafne, grazie. Credimi, non mi avrebbero dimesso se non fosse così”.
“Com’è stato? Orribile? A me puoi dirlo…”.
“Mah…diciamo questo: avrei potuto divertirmi di più. Tu dovresti saperlo, Dafne, mi sei sempre stata vicina e la tua presenza mi ha dato molta forza mentre ero in clinica. Sei stata l’unica a venire, sai?”
Gli occhi di Dafne si spalancarono. “Questo perché tu mi hai fatto promettere di non dire a nessuno dov’eri! Un sacco di gente mi ha chiesto di te! Sempre e costantemente. Comunque l’importante è che sei tornato, e ne sono felice. Quando potrai rimetterti al lavoro?”.
“Non dovrei affrettare i tempi, ma a dire il vero mi sento già pronto. Il prossimo libro si sta scrivendo da solo nella mia testa. Il medico ha detto di aspettare, ma in tutta franchezza non ho mai creduto che questa faccenda fosse tanto seria come pensano tutti, compresa te. Stavo semplicemente lavorando troppo. Il mio cervello era sotto pressione. In futuro starò più attento. Vedi, Dafne, il mio modo di scrivere…”.
“E’ proprio questo il punto! Il tuo modo di scrivere!” – mi interruppe lei – “Lo vivi troppo intensamente, Paul. A volte mi fai rabbrividire”.
Nei giorni che seguirono ripresi in mano la mia vita. Effettuai le visite di controllo nella clinica del dottor Stevens che confermarono come, ormai, fossi in gran forma.
Alla fine, non potei più rimandare l’inizio della stesura del nuovo libro. Eravamo entrambi pronti. Feci provviste di snacks e caffè. Mi chiusi nello studio. Per creare.
Scrivevo velocemente. Dopo circa una settimana mi sentivo come avvolto da un bozzolo familiare. Sapevo che all’esterno esisteva un mondo, ero conscio del telefono che squillava e della presenza di Dafne, ma l’unica cosa che contava era la tastiera del pc e le frasi che si manifestavano sullo schermo.
Il giorno lasciava il posto alla notte e poi di nuovo al giorno. Le pagine si accumulavano. Solo questo mi rendeva felice.
“Sei sicuro che non sia troppo presto? Hai ricominciato a scrivere con i tuoi ritmi folli. Sono un po’ preoccupata per te…”, mi disse Dafne, in una calda serata di fine agosto, mentre eravamo seduti in terrazzo davanti agli avanzi di una squisita cena cinese consegnata a domicilio.
“Va tutto bene ed io mi sento magnificamente”.
Ed era vero. Ricordo come un capitolo cruciale giunse al termine in una notte così tarda, che persino le luci dei lampioni sembravano stanche. Mi sentivo forte, esaltato, immortale.
Non so esattamente quanto tempo trascorse.
Una mattina, dopo aver bevuto la mia solita tazza di caffè, mi diressi verso il bagno.
Nel corridoio, in una pozza di sangue, giaceva Dafne, senza vita.
Gridai, disperato.
Fui pervaso dal terrore.
Chi poteva aver fatto una cosa simile? La finestra del corridoio, quella che dava sul terrazzo, era spalancata e il vetro ridotto in frantumi. Qualcuno era entrato in casa e l’aveva uccisa, mentre io, disgraziato, ero chiuso nello studio, isolato dal mondo, a scrivere!
Era tutta colpa mia!
Chiamai la polizia e nel giro di pochi minuti gli agenti giunsero in casa. Mi fecero un sacco di domande. Effettuarono una serie di meticolosi rilevamenti scientifici.
Da quel giorno non sono più riuscito dormire.
Forse, però, ho capito chi può aver ucciso Dafne. Dovrò dirlo ai giudici, anche se non penso mi crederanno.
Il processo è vicino.
Naturalmente ho paura. Ma ho anche un libro da terminare. Sono quasi alla fine, all’epilogo.
E intanto scrivo.
Ma non sono solo.
Devo sempre tenere d’occhio il mio compagno di cella, Johnny il Biondo, che tiene d’occhio me.
Fonti fotografiche :
“Il settimo sigillo “
GIANLUCA ARRIGHI
Avvocato penalista di successo, nel 2009 si è affermato come scrittore “legal-crime” pubblicando il romanzo “Crimina Romana”, subito rivelatosi un best seller.
Vive e lavora a Roma.
Collabora con diverse testate giornalistiche nazionali in qualità di opinionista e scrittore.
Nel 2010 Arrighi inizia a scrivere una serie di racconti noir per alcune note riviste, settimanali e mensili.
I racconti riscuotono un tale successo tra i lettori da dover essere ripubblicati a più riprese.
In seguito alla cessione dei diritti cinematografici, da “Crimina Romana” verrà presto tratta una fiction tv.
L’argomento “legal-crime” del suo nuovo romanzo, di prossima pubblicazione e che sta suscitando grande curiosità tra i lettori, è tuttavia ancora coperto dal massimo riserbo.