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Parole e simulacri

Creato il 21 giugno 2010 da Leliosimi @leliosimi

Tony Judt è uno di quegli scrittori che difficilmente ti lasciano indifferente. Storico inglese trasferito negli Stati Uniti, insegna alla New York University. Libri, saggi, conferenze, da anni le sue riflessioni sul rapporto tra  società, linguaggio, potere e intellettuali sono considerate da molti tra le più originali e controcorrente.

Un anno e mezzo fa gli è stata diagnosticata quella terribile malattia che conosciamo con il nome di SLA (sclerosi laterale amiotrofica). Sul New York Review of Book (rivista con la quale collabora da anni)stanno uscendo, da inizio anno, una serie di articoli a firma dello storico anglo-americano, una serie di riflessioni sulla società e sull’esperienza della propria malattia. Una sorta di diario/testamento.  “Nigth” (tradotto in italiano a febbraio su Internazionale), “Food” e quello più recente “Words” online da un paio di giorni.

Qualche tempo fa (luglio 2009)  lo storico Sergio Luzzato, in un bell’articolo nel quale recensiva un apprezzato libro di Judt, faceva notare come in un’epoca nella quale  i linguaggi dominanti sono il politichese e, ancora più, l’economichese, – una sorta di esperanto, dice Luzzato, un gergo planetario, una lingua di culto “il culto contemporaneo del mercato e delle presunte sue leggi di bronzo” – si fa sempre più strada un altro linguaggio, conseguente e complementare a questi due. Un linguaggio dominato dalla paura, dall’incertezza, dalla diffidenza dell’altro. Una lingua sempre più rarefatta, reiterata, composta da termini vaghi e volutamente opachi.
Judt ci mette in guardia anche oggi. Le parole, la loro ricchezza, sono uno “spazio pubblico” nel quale esercitare i propri diritti, e dove affermare il significato di vivere insieme, persona tra le persone: “If words fall into disrepair, what will substitute? They are all we have”.

Ma quello che fa lo storico inglese non è solo un atto di accusa, la denuncia di un declino di una società che sta perdendo alcuni dei propri valori più importanti. Il paradosso che apprendiamo dagli scritti di Judt è che il senso di perdita può essere anche l’opportunità di una nuova scoperta. L’occasione, forse, per mettere a fuoco e ritrovare il senso di cose che – ci piaccia o no – stanno per mutare definitivamente. Un’esperienza drammaticamente personale, nel caso di Judt, ma anche, in un significato più ampio, la possibilità di un’azione collettiva di riappropriazione di valori più profondi. Mi sembra che l’insegnamento di questi articoli sia anche questo.

Ovviamente ne consiglio la lettura, in particolare di Words, dal quale ne riporto, tradotto da me, un brano tra i tanti, che mi ha particolarmente colpito.

L’insicurezza culturale genera il suo doppelgänger linguistico. Lo stesso vale per il progresso tecnico. Nel mondo di Facebook, MySpace, e Twitter (per non parlare degli sms), le allusioni concise sostituiscono l’esposizione articolata. Dove una volta Internet sembrava un’opportunità per la comunicazione senza restrizioni, la crescente tendenza commerciale di questo media, – “I am what I buy”- lo ha invece impoverito. I miei figli osservano che nella loro generazione, le sintesi linguistiche dei loro hardware hanno cominciato a influenzare la loro stessa comunicazione: “la gente parla come sms”.

Questo dovrebbe preoccuparci. Quando le parole perdono la loro integrità così fanno anche le idee che esse esprimono. Se privilegiamo l’espressione personale rispetto alla forma convenzionale, allora stiamo privatizzando anche il linguaggio così come abbiamo privatizzato molto altro. «Quando uso una parola», Humpty Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, «essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno». «La questione è», rispose Alice, «se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi». Alice aveva ragione: il risultato è l’anarchia.

In “La politica e il linguaggio inglese” Orwell castigava i suoi contemporanei per l’uso di un linguaggio che tende a mistificare, piuttosto che a informare. La sua critica era diretta alla malafede: la gente scrive poveramente perché cerca di dire qualcosa di non chiaro, o deliberatamente prevaricante. Il nostro problema, mi sembra, è diverso. Una prosa scadente oggi rivela insicurezza intellettuale: noi parliamo e scriviamo male perché non ci sentiamo sicuri di quello che pensiamo e siamo riluttanti ad asserirlo inequivocabilmente (“È solo la mia opinione…”). Piuttosto che soffrire l’inizio di una “nuova lingua”, rischiamo l’ascesa di una “non-lingua”.

da Words (New York Review of Book)

Approfondimenti:

The Way Things Are and How They Might Be (intervista di Kristina Božič a Tony Judt /London Review of Book)

Il testamento di Tony Judt: “Sinistra, ritrova l’orgoglio” (Alessio Altichieri sul suo blog Chelsea mia / Repubblica)

The Trials of Tony Judt (Evan R. Goldstein / Chronicle Review)

Sull’ultimo libro di Tony Judt (Mario Ricciardi / Brideshead )

Toni (NYR Blog)

#Tony Judt

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