Speriamo che i resti di Hatra siano di gesso, come si è detto delle statue del museo di Mosul. Speriamo che la notizia della distruzione dell’antica città situata a 100 chilometri a Sud di Mosul, fondata nel III secolo avanti Cristo dalla dinastia dei Seleucidi, sia falsa o frutto di una disperata o insensata propaganda..
Speriamo anche però, che ci venga risparmiata la sdegnata condanna di chi ha contribuito a far rimpiangere la custodia che la cenere del Vesuvio ha esercitato su Pompei, di chi sta svendendo Milano agli arabi ricchi, che invece quelli poveri non hanno diritto nemmeno a un posto in cui pregare, di chi tramite moderna giurisprudenza promuove il sacco del territorio, la sua devastazione, la resa alla speculazione.
In passato avevo invece tratto motivi di conforto per un piano paesaggistico regionale che andava in controtendenza rispetto all’ideologia criminale che ha animato Sblocca Italia, quel caso di scuola per produttori di ecomostri, per faraoni di piramidi, per futuristi di alte velocità, per costruttori di ponti degli ultimi respiri, per scavatori di canali improvvidi, e che attribuisce poteri dello stato, degli enti locali, delle regioni a immobiliaristi e cementificatori privati, anche grazie all’esproprio delle attività di vigilanza ai soggetti di controllo, già impoveriti e defraudati.
Consolava che proprio la regione su cui aveva imperato quel sindaco autore di varianti con piroetta, delle menzogne spudorate sui volumi zero azzerati dai crediti edilizi, della “valorizzazione” delle grandi aree industriali dismesse, delle pavimentazioni scriteriate, delle licenze per terrazze panoramiche con vista, dell’alta velocità locale più inutile e dannosa di quella sovranazionale e della grande abbuffata di deroghe, si sottraesse al destino, che pareva segnato, di apripista delle politiche contro il territorio del giovanotto diventato premier pronto a trasferire la sua esperienza di sceriffo prepotente e incolto, fatta di autocrazia, deliberazioni d’urgenza (come quella per la pedonalizzazione di piazza del Duomo), annientamento del consiglio comunale, svuotamento di senso della città pubblica, finto decentramento e vera privatizzazione in una ossessiva e spregevole contaminazione tra pubblico e privato.
Ma ormai è vietato illudersi: il patto del Nazareno, declinato su scala periferica, ha prodotto due pacchetti di emendamenti fotocopia, quello del Pd e quello di Forza Italia, uguali negli intenti e perfino nel linguaggio, in modo da convertire quello che si accreditava come un piano pilota per contenuti di rispetto, tutela, salvaguardia, nella replica bonsai, altrettanto delittuosa, dello Sblocca Italia. A cominciare da un comma che assume un valore simbolico e inquietante, quello che definisce le valutazioni scientifiche contenute nelle schede di ambito come “non vincolanti” – quindi “facoltative” – dispensando gli enti territoriali dal farvi riferimento nell’elaborazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, in modo da stabilire per legge arbitrarietà, discrezionalità, probabile consegna a privati, speculatori, Eppure lo stesso Enrico Rossi aveva definito quel Piano “una cornice di regole certe, finalizzate a mantenere il valore del paesaggio anche nelle trasformazioni di cui esso è continuamente oggetto”, grazie all’applicazione di strumenti in grado di governarne la trasformazione in modo responsabile. E grazie anche al contenimento del consumo di suolo, di coste, di spiagge, alle limitazioni all’estrazione del marmo, alla distruzione dei monti, alla regolamentazione dell’agricoltura, che così come erano posti nel testo originario, postulavano una gestione intelligente del territorio il cui sviluppo è possibile e sostenibile a condizione di ridurne l’indole perversa e illimitata all’esaurimento delle risorse e allo sfruttamento dell’ambiente.
Perché un piano paesaggistico non deve essere un insieme di vincoli, che congelano lo stato di una geografia: deve essere invece la mappa dell’ambiente regionale in tutte le sue componenti, in tutte le sue dimensioni, in tutta la sua complessità di geomorfologia ed ecosistemi, sistemi agrari, produttivi e urbanistici. In questo caso per far sì che la definizione letteraria di “paesaggio toscano” perda la sua natura retorica, pittorica quando non consumistica di sfondo per villette a schiera, a albergoni a uso turistico, per diventare una massa critica di analisi dettagliate, di schede tecniche, di inventari di beni naturali e archeologici, perché tutti, autorità, istituzioni, amministratori, cittadini possano conoscere e custodire il loro bene comune.
Piovono documenti, mozioni, comunicati, appelli, compresi quelli della Cgil che ricorda che l’oltraggio e il saccheggio di paesaggio e cultura non solo non portano lavoro, non producono ricchezza, non aiutano la crescita, ma al contrario rendono tutti più poveri, umiliando cittadinanza e democrazia. Piovono su una regione colpita continuamente da eventi estremi, che portano ad estreme conseguenze, ferita da trascuratezza e speculazione, impoverita da tagli e ricatti.
Ma è vietato illudersi anche sulla resistenza di chi quel piano lo ha voluto, abituati come siamo a un’opposizione interna fatta di mugugni, lagne, brontolii a mezza bocca, reticenze che sfociano in approvazioni pacificatrici e a ragionevoli consensi.
Altro che cornice di regole. Resterà una cornice, ma solo quella per conservare la foto ricordo delle Apuane, minacciate dalla lobby del marmo, dei piccoli centri e delle aree protette, delle coste e delle foreste, a meno che non apriamo l’ombrello noi cittadini, quei comitati e comitatini derisi dallo sbruffone impenitente che in tante parti esercitano una domestica, insostituibile e irriducibile opposizione ai predoni.