di Patrizia Poli
“Penso a Livorno, a un vecchio cimitero
di vecchi morti; ove a dormir con essi
niuno più scende; sempre chiuso; nero
d’alti cipressi.
Tra i loro tronchi che mai niuno vede,
di là dell’erto muro e delle porte
ch’hanno obliato i cardini, si crede
morta la Morte,
anch’essa. Eppure, in un bel dì d’Aprile,
sopra quel nero vidi, roseo, fresco,
vivo, dal muro sporgere un sottile
ramo di pesco.
Figlio d’ignoto nocciolo, d’allora
sei tu cresciuto tra gli ignoti morti?
Ed ora invidi i mandorli che indora
l’alba negli orti?
Od i cipressi, gracile e selvaggio,
dimenticati, col tuo riso allieti,
tu trovatello in un eremitaggio
d’anacoreti?”
Giunge improvvisa, nel 1887, a Giovanni Pascoli (1855 – 1912) la notizia che il ministero lo ha trasferito da Massa a Livorno, dove ha ottenuto un incarico presso il liceo Niccolini Guerrazzi. Sgomento, si confida col Carducci che lo esorta comunque ad andare verso il cambiamento. Sappiamo tutto del trasferimento grazie agli scritti della sorella Maria, “Lungo la vita di Giovanni Pascoli”.
Dopo l’uccisione del padre e gli altri tragici lutti familiari, Giovannino ha preso con sé Ida e Maria, le due sorelle, e con loro si trasferisce nella nostra città. Il 31 ottobre parte in treno, le sorelle lo raggiungono su un barroccio carico di mobili, con la gabbia dell’uccellino Ciribì. La gattina di famiglia sfugge dal canestro e non si fa trovare. Sarà un bravo vicino a riconsegnarla la settimana successiva.
Dal luminoso alloggio campestre di Massa si ritrovano catapultati al quarto piano di uno squallido appartamento in via Micali. Giovanni comincia a insegnare al liceo, dà anche molte lezioni private ma i soldi non bastano mai, fra cambiali da pagare, mobili da acquistare e libri indispensabili per l’insegnamento e gli studi.
La famiglia vive in grandi ristrettezze, Giovanni non si integra subito sul luogo di lavoro e si sente poco stimato dai colleghi. Continua ad aspirare, come tutti gli insegnati livornesi, a un posto in Accademia, ma intanto accetta anche un incarico in un collegio di Ardenza. Ha solo una mezz’ora d’intervallo nella quale corre a casa per mangiare un boccone ma finisce, come ci racconta Maria, per addentare pane e salame in carrozza. Prende anche in casa uno studente che prepara senza successo per gli esami.
Il tempo libero è poco, con due sorelle a carico c’è da pensare solo a sbarcare il lunario. Nonostante ciò, è qui che prende corpo parte della raccolta Myricae, poi pubblicata dall’editore Raffaello Giusti, è qui che si delinea al poetica pascoliana, antiretorica, aderente alle cose.
Ed è in questo periodo che Giovanni s’innamora di Lia, una giovane cantante figlia di un musicista che abita davanti al liceo. In una poesia ce la descrive con le vesti troppo corte per l’età.
“Lia giovinetta, ardisci dunque, parla;
di’: « Cara madre, corta è piú la gonna
che non convenga; or pensa ad allungarla.
Fiere pupille seguono moleste
i passi miei di giovinetta donna;
ond’io vorrei piú schermo della veste ».
Troppo io so bene quale a me talora
da te derivi immemore malia,
che gli occhi avvallo, e il volto trascolora;
di che tu avvampi, o giovinetta Lia!”
Vicissitudini familiari, la possibilità poi evitata che la sorella Ida sposi un giovane non gradito, gli fanno volgere le spalle all’amore per concentrarsi sui doveri di famiglia.
Anche se gravata da pensieri economici, la vita dei fratelli è serena. Frequenta casa il poeta Giovanni Marradi; Pietro Mascagni musica la lirica “Sera d’ottobre”.
“Lungo la strada vedi sulla siepe
Ridere a mazzi le vermiglie bacche:
nei campi arati tornano al presepe
tarde le vacche.
Vien per la strada un povero che il lento
Passo tra foglie stridule trascina:
nei campi intuona una fanciulla al vento:
fiore di spina!”
Sono frequenti le incursioni alla fiaschetteria in via Maggi, insieme a Carducci, o le passeggiate fino a piazza Cavour per acquistare dolci che allietano le serate. La casa si riempie di uccellini ma il preferito resta sempre Ciribì.
Quando i problemi economici un poco si acquetano, si trasferiscono tutti in una villetta con giardino, sempre in via Micali. Giovanni vince il Veianus, un concorso olandese di poesia latina, ma è costretto a impegnarsi la medaglia per risolvere il problema di una certa cambiale e le sorelle finiscono per mettersi nelle mani di un usuraio.
Il soggiorno labronico termina nel 1895 con una nomina in altra città. Livorno, che lo aveva accolto con freddezza, gli tributa stima e onori, richiamandolo nel 1911 per fargli tenere un discorso all’Accademia in occasione del cinquantenario dell’unità d’Italia.
Il legame con la città resta e se ne sentono gli influssi in numerose poesie, fra le quali Il conte Ugolino.
“Ero all’Ardenza, sopra la rotonda
dei bagni, e so che lunga ora guardai
un correre, nell’acqua, onda su onda,
di lampi d’oro. E alcuno parlò: «Sai?»
(era il Mare, in un suo grave anelare)
«io vado sempre e non avanzo mai».
E io: «Vecchione,» (ma l’eterno Mare
succhiò lo scoglio e scivolò via, forse
piangendo) «e l’uomo avanza, sì; ti pare?»
E l’occhio, vago qua e là mi corse
alla Meloria…”
di Patrizia Poli