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Pasolini sbagliò assassino: ad ammazzare Enrico Mattei non fu Eugenio Cefis

Creato il 11 febbraio 2014 da Lundici @lundici_it
Pier-Paolo-Pasolini

Se prendete in mano «Petrolio», l’ultimo ed incompiuto romanzo di Pier Paolo Pasolini e lo aprite a pagina 93 troverete una pagina bianca ed un titolo sotto la rubrica “Appunto 21”: «Lampi sull’ENI». Quella pagina bianca è rimasta un mistero, forse costruito, forse vero. «Petrolio» è il testo narrativo al quale Pier Paolo stava lavorando con foga nei mesi che precedettero la sua terribile fine nel campetto verso il mare, ad Ostia (Roma), il 2 novembre 1975. Lo lasciò in una forma di magma, con appunti manoscritti, capitoli non terminati, abbozzi di sviluppi narrativi. Nonostante ciò, alcuni squarci di episodi testimoniano le ossessioni nelle quali oramai viveva l’autore, ben disegnate dal suo ultimo film: «Salò o le centoventi giornate di Sodoma» e sono di una potenza visiva straordinaria.

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Ma la domanda dalla quale partiamo è: perché il capitolo «Lampi sull’ENI» è bianco? Secondo alcuni, quel capitolo fu rubato dalla casa dello scrittore e trafugato perché doveva scomparire. Una delle tante storie misteriose che hanno avvolto, come un sudario, l’Italia e che vi raccontiamo.

L’ossessione pasoliniana

Abbiamo detto dell’ossessione in cui oramai viveva lo scrittore, acuita ancora di più negli ultimi anni dal suo radicale pessimismo. «Petrolio» è il punto terminale di questa ossessione, che, almeno nelle intenzioni dell’autore, doveva rappresentare il suo «romanzo politico», nel quale lo scrittore avrebbe raccontato la «storia criminale» della Democrazia Cristiana, il partito politico che lui aveva messo sotto accusa, proponendo di processarlo per una corposa serie di reati (fra i quali l’inquinamento ambientale che aveva portato alla scomparsa delle lucciole, denunciata da Pasolini in un famoso articolo del «Corriere della sera»).

Il romanzo voleva raccontare la storia di Enrico Mattei (nella finzione, Bonocore) ed Eugenio Cefis (Troya). Il primo, fondatore dell’ENI, trovò la morte nel terribile incidente aereo di Bascapè (27 ottobre 1962), le cui cause, per molti decenni, sono rimaste avvolte nel mistero più impenetrabile. Il secondo fu uno degli uomini più potenti del nostro Paese e divenne presidente dell’ENI alla morte di Mattei. Lo scenario che Pasolini disegnò era che Cefis ordì il sabotaggio dell’aereo sul quale viaggiava il fondatore dell’ENI per prenderne il posto.

La fonte principale di Pasolini era un libro di Giorgio Steinmetz, intitolato: «Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente», pubblicato nel 1972 da un oscuro editore, «Agenzia Milano informazioni». In realtà, si trattava di uno pseudonimo, che nascondeva il nome di Corrado Ragozzino, proprietario di un’agenzia di informazione finanziata da un personaggio di cui parleremo fra poco: Graziano Verzotto. Nel libro di Ragozzino si formulava qualcosa di più di un’ipotesi sull’incidente di Bascapè: a sabotare l’aereo sarebbe stato proprio Cefis, desideroso di prendere il posto occupato dall’ingombrante e oramai popolarissimo Mattei. Era una versione che, secondo molti, faceva comodo soprattutto a Verzotto, il vero dominus di tutto l’affare.

Enrico Mattei (1906 –1962)

Enrico Mattei (1906 –1962)

La suggestione di Frazer

Fra gli appunti pasoliniani salta agli occhi quello in cui lo scrittore annota: «Troya (!) sta per essere fatto presidente dell’ENI: e ciò implica la soppressione del suo predecessore». In quegli anni una lettura molto di moda era il «Ramo d’oro», dell’antropologo scozzese James Frazer, pubblicato in una seconda edizione ridotta dallo stesso autore nel 1922 (in una delle scene iniziali del celebre «Apocalypse Now» di Francis Ford Coppola, appare sul comodino della camera d’albergo di Saigon dove il protagonista è alloggiato).

Frazer analizza il mito del lago di Nemi (una località nei pressi di Roma), dove dimoravano Diana Nemorense ed Egeria, amante e consigliera di Numa Pompilio. L’antropologo scozzese riporta la leggenda che, presso un grande albero, si aggirava un sacerdote, il rex nemoriensis, notte e giorno impegnato a difendere la sua vita con la spada sguainata: «Anno dopo anno – scrive Frazer – d’estate e d’inverno, col sole o con la pioggia, mai poteva interrompere la sua solitaria vigilanza, e ogniqualvolta rubava un’ora di sonno agitato, lo faceva a rischio della vita». Il mito ci dice che il candidato al trono di quei luoghi poteva diventare il nuovo sacerdote soltanto uccidendo il vecchio. Era una sorta di successione sanguinaria, una festa crudele che si celebrava nelle anse scoscese di quel bosco sacro.

La simbologia presente in questo mito colpì Pasolini ed anche Italo Calvino, secondo i quali il tema del sacrificio era centrale per comprendere la questione del potere (sul quale si incentra, in sostanza,«Petrolio»). In un qualche modo, scriveva Calvino, le moderne vicende politiche non fanno altro che confermare il mito del rex nemoriensis che, per assurgere al trono, deve uccidere il suo predecessore: così accadde nella vicenda del presidente americano Richard Nixon (defenestrato dopo lo scandalo Watergate nel 1972) e perfino con Aldo Moro (ucciso dalle Brigate rosse nel maggio del 1978).

Per Pasolini il mito raccontato da Frazer aveva, però, un altro significato: mostrava come il «laido potere» (come lo definiva Leonardo Sciascia) si fondi sull’abominio, sul crimine. Sia lo scrittore friulano, sia Franco Fortini polemizzavano con Calvino, cercando di convincerlo che «il male è immanente alla società, che le è connaturato». Calvino, invece, aveva una visione manichea dell’universo, ritenendo che Bene e Male siano forze contrapposte e necessarie, perché è attraverso la loro alternanza che si stabilisce l’equilibrio del mondo.

Chi uccise Mattei

L’ipotesi che Mattei fosse stato ucciso in un falso incidente e che il mandante del sabotaggio del suo aereo fosse Eugenio Cefis fu un abbaglio di Pasolini, che però non avrebbe inficiato il suo potente apologo sul potere, purtroppo mai giunto a compimento (lo scrittore aveva previsto di scrivere oltre duemila pagine: ne rimasero non più di quattrocento). Secondo alcuni, Pasolini potrebbe essere stato punito per quel romanzo. È l’ipotesi che adombra l’inchiesta giudiziaria condotta dal giudice della procura di Pavia Vincenzo Calia, poi archiviata nel 2001 per mancanza di riscontri oggettivi, secondo la quale lo scrittore era giunto alle medesime conclusioni del giornalista palermitano Mauro De Mauro (ucciso dalla mafia, il cui cadavere non sarà mai ritrovato): Mattei fu eliminato perché, con il suo attivismo in Medio Oriente, dava fastidio alle compagnie petrolifere americane.

Il maresciallo dei carabinieri Guastini, che aveva condotto le indagini per conto del magistrato, ebbe a dire: «L’ipotesi che l’ambiente politico-economico avesse un interesse ad eliminare Pasolini merita un serio approfondimento, specialmente dopo che Pelosi (l’assassino di Pasolini) ha fatto le sue ammissioni. Diciamo che è una possibilità logica».

Graziano Verzotto (1923 –2010)

Graziano Verzotto (1923 –2010)

Il contesto era azzeccato ma era sbagliato il nome del mandante. In una sentenza dell’agosto del 2012, la Corte di assise di Palermo, nell’assolvere Totò Riina dall’omicidio di Enrico Mattei, individuò in Graziano Verzotto (potente democristiano, già fiduciario di Mattei e dell’ENI in Sicilia, legato a filo doppio alla vecchia mafia dei Badalamenti e dei Di Cristina e, nonostante ciò, sopravvissuto alla mattanza compiuta dai corleonesi negli anni ’80) il mandante dell’omicidio di Mattei. Fu il potente democristiano a dare l’incarico alla mafia di sabotare l’aereo di Mattei, con una carica di microesplosivo collocata sotto il cruscotto, perché l’eliminazione gli era stata chiesta da ambienti americani, dopo che il presidente dell’ENI aveva progettato un colpo di stato contro il re Idris in Libia.

Mattei si proponeva di diventare il terminale di riferimento del petrolio libico, deponendo il regime filo-americano di Idris. De Mauro aveva scoperto, con prove inoppugnabili, il complotto in un lavoro di indagine commissionatogli dal regista Francesco Rosi, ma non il volto del mandante. Era amico di Verzotto, al quale affidò l’incartamento da spedire al produttore cinematografico romano Pietro Notarianni, che non lo ricevette mai. Secondo i giudici palermitani, Verzotto non poté fare a meno di eliminare anche De Mauro, che presto sarebbe arrivato a comprendere il suo ruolo: ancora una volta il modello del sacrificio di Frazer trovava conferma. Verzotto non fu mai inquisito, né sospettato per quel delitto, anche se si era sentito in dovere di diradare le molte ombre che avvolgevano la sua figura in un libro di memorie del 1997, difendendo la sua totale estraneità a quei fatti criminosi.


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