Il nome della terza persona coinvolta nell’omicidio dell’intellettuale sta per essere svelato. La traccia del DNA rilevata sulla tavoletta lo scorso novembre sta per essere accertata costituendo così una vera e propria svolta alle indagini.
Il lavoro dei Ris di Roma sui reperti ritrovati nell’Alfa GT grigia 2000 di proprietà dello scrittore, e rimasti accantonati per anni col passare delle inchieste e dei depistaggi infatti non conosce sosta.
L’identità relativa alle nuove tracce ematiche estratte dall’esame del DNA sulla famosa tavoletta “Buttinelli”, utilizzata per colpire Pasolini oppure, come arma di difesa dalla stessa vittima sembra da indiscrezioni che abbia un nome e un cognome, e che a breve possano essere svelati.
Questo piccolo tassello di una storia infinita va ad unirsi ad alcuni spunti offerti dall’incontro avvenuto ieri presso la Libreria “Piave” di Roma, nel corso della presentazione del libro di Giuseppe Pelosi, “Io so...come hanno ucciso Pasolini” (Vertigo editore, ottobre 2011).
All’incontro erano presenti, oltre all’autore, Walter Veltroni e i reali autori del libro: Federico Bruno (regista del film in uscita “Pasolini: la verita nascosta) e Alessandro Olivieri (legale di Pelosi).
Durante lo scambio fra Veltroni e Pelosi, quest’ultimo ha ammesso quello che i verbali e le verità, che il percorso processuale non ha riconosciuto come rilevanti, già dicevano: l’autoaccusa dell’allora 17enne Pino Pelosi, condita di fatti tesi a dimostrare che l’omicidio fosse avvenuto per legittima difesa da violenza sessuale, fu imbastita appositamente da qualcun’altro e portata avanti poi fino alla fine.
Altro dettaglio scaturito da una nostra domanda allo stesso Pelosi è quello non poco rilevante che riguarda il momento in cui lui e Pasolini lasciano il ristorante “Biondo Tevere” per andare all’appuntamento a recuperare le pizze del film “Salò” (fatto non ancora accertato ma sempre più persistente oggi nella scia delle indagini).
I Borsellino, a bordo della moto Gilera rubata appositamente per l’agguato, avrebbero iniziato a seguire l’Alfa GT proprio dal Biondo Tevere e Pelosi sapeva dell’inseguimento. Precisiamo che non lo conferma direttamente anzi, ma l’espressione e il modo con cui evade la risposta e la mezza ammissione “che cambierebbe se fosse?” nel terminare il confronto sono stati più eloquenti di ogni altra affermazione o negazione.
Questo dettaglio al contrario cambierebbe le cose, perché rafforzerebbe la tesi dell’agguato e la posizione di esca non del tutto inconsapevole del Pelosi. Anche se non ancora accertato giudiziariamente, Pelosi non era solo quella notte e forse non partecipò direttamente a quella mattanza, ma potrebbe rivelare dettagli ancora utili a ricomporre il quadro.
Una cosa è certa, Pelosi non dirà mai tutto ciò che sa su quella notte. E’ lui stesso ad affermarlo ribadendo all’evento, così come in ogni altra occasione, il timore per la propria vita; ma la verità aspetta da troppo tempo il volto in chiaro degli esecutori e soprattutto dei mandanti.
Nelle immagini Pelosi si reca a Casarsa in visita alla tomba dell’intellettuale: chi ha visto quelle immagini non può che affermare che esse non possano né rappresentare il dovuto omaggio all’ ”amico assassinato”, né dal punto di vista artistico un valore aggiunto.
Le indagini vanno avanti e l’identità di almeno uno degli esecutori materiali dell’assassinio pare non essere più al sicuro, nonostante i molteplici sforzi di Pelosi di garantirne l’anonimato.
Un’altra verità dunque esiste e potrà essere chiarita anche giudiziariamente, un giusto omaggio, e più che altro un atto dovuto, dopo le innumerevoli riaperture e richieste di archiviazione del caso.
Foto: Martina Di Matteo/ Simona Zecchi
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