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di Francesco Sasso
L’universo delle angosce del poeta è disteso sulle pagine di Il cibo senza nome, e la vita pare un appena-respiro di sonno. Ed ancor di più che definita poesia, la raccolta è travaglio spirituale, discorso, tormento “senza nome”, ricerca: «[…] E’ facile per me / perdere qualcosa…/ Un tempo, / una parola» (p.22)
La raccolta si divide in due sezioni: Dentro e Fuori. Un discorso poetico ambivalente, dunque, sulle paurose bonacce dell’immobilità, la morte, il male, e il non esser nulla dinnanzi alla moltitudine delle anime coscienti. Allora sono le cose a farsi paese dell’esilio del poeta, valichi della realtà intima e del mondo. Ed ecco un amore perso fra le cose e «la polvere che ti mangia tutto» (p.26); ecco l’assillo, il pungolo della vita che cola «nel ristagno dei saluti che / ti devo giorno dopo giorno» (p.41), forse la scoperta che la meta è il nulla. Forse. Tra lo sbigottimento dell’oggi e l’ ieri vissuto e imbracciato come uno scudo. Quanto alla vita: non è facile spiegarla. E’ difficile nominare “il cibo” quotidiano, ma la vita basta averla vissuta. E Pasquale Vitagliano riesce a non dissipare lo scarso attimo di un appena sfiorata vita nella vita, la quale conoscono solo i poeti e i mistici. Infatti:
«Anche se mi parli, tu taci / il silenzio che hai dentro, / tu taci il vuoto prima del verbo, / tu taci il pugno cieco del rumore. // Anche se mi parli, tu taci / il lessico dei tuoi occhi, / tu taci le sillabe traverse, / tu taci i battiti podalici del sangue. // Tu taci, anche se mi guardi. / Anche se taci, io ti ascolto.» (p.38)
f.s.
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