Katia Debora Melis non è affatto una novizia della poesia cioè è ormai distante –per mezzo delle sue numerosi sillogi- da una qualsiasi persona che si affaccia al mondo poetico. Ne ha data ampia testimonianza in una serie di raccolte con le quali negli ultimi anni ha effettuato un percorso oserei direi di analisi e di ricerca, offrendo suggestioni al lettore e mondi aperti sui quali disquisire con molteplici piste interpretative. Conosco varie di queste sillogi alle quali faccio riferimento perché in altre circostanze ho avuto lo stesso piacere che ho oggi, di recensire un suo lavoro.
Il nuovo libro della Nostra, “Passaggi minimi”, si apre trasmettendo quella curiosità, ingrediente necessario quando ci si avvicina a un testo con un intento volto a una lettura critica e tale curiosità e interesse non sono che amplificati dalla stupenda immagine di copertina, una foto in gradazione seppia nella quale si intravede uno scorcio di un vicolo di un qualche centro abitato dove a dominare sono le numerose –e irte- scale che conducono a vari livelli delle abitazioni. Questo vicolo, volutamente ritratto in penombra e privo di presenze umane, è in fondo un “passaggio minimo”, un percorso iniziatico al mondo della Melis, che non è altro che una proiezione di un vissuto rimaneggiato da un profondo processo di autocoscienza e ri-analisi. Non è dunque una semplice raffigurazione di quello che può essere un mero angolo recondito del nostro villaggio, ma uno spazio della mente, un elemento di congiunzione necessario tra le esperienze e le emotività in esse contenute.
Sfogliando il libro ciò che si nota tempestivamente è la struttura snella delle liriche dotate sempre di una strofa unica di pochi versi; la punteggiatura, pure, è ridotta all’osso anche se si conservano ancora i punti di fine concetto e di demarcazione tra una frase e l’altra. Le virgole (quasi sempre), i punti sospensivi e i punti esclamativo-interrogativi sono banditi dalla poetica di “Passaggi minimi” dove lo stile, asciutto ma sostenuto da una forte concretezza concettuale, è percepito dal lettore come bastevole e adatto a quanto la Melis dipinge con il suo versificare.
Le poesie sono in via generale pervase da un animo di fondo nel quale è difficile non percepire un tratto di malinconia che mai si solidifica in vera e propria tristezza e allo stesso tempo che non degenera nell’agrodolce; è, piuttosto, una tiepidezza di emotività nella quale le eccessività sono state messe al bando. Ed è questo un ulteriore punto a favore di una poetica liscia e pulita come questa dove i concetti, pure condensati in virtù della brevità delle liriche, sono a tratti impliciti (dunque da ricercare), altre volte maggiormente visibili, intuibili e fruibili ai più. Le poesie partono da un interesse particolare nella rielaborazione dei pensieri, delle vicissitudini, delle esperienze contaminate dal ricordo e da una realtà pregressa in quell’unicum che non è altro una metamorfosi del tempo e dello spazio identificabile nella sua espressione di “passaggio di vita” (13). La visione magica (e non fantastica) della luna, col suo carico di mistero e le sue sfumature favolose, è in grado di suscitare nella nostra un pensiero sospeso, di sana speranza che si nutre di giocosità e surrealtà al tempo stesso. Le dimensioni “sospese” nella silloge sono molteplici con il richiamo ai “voli sacri” (15) e lo stesso verseggiare secco, laconico e diretto pone in fondo questa poesia in una posizione di difficile catalogazione nella quale nella lettura ci troviamo afferrati da questo canto di interpretazione del mondo.
Colpiscono alcuni versi come ad esempio nella lirica dal titolo “Non ho voglia” leggiamo: “Non ho voglia/ di impegnarmi a vivere/ troppo” (20) fornendo poi una valida considerazione sull’esistenza e sul senso dell’esserci a questo mondo. La consapevolezza di un’esistenza che si arrovella di domande, dubbi, che si mette in gioco è quella di una persona intelligente e pratica, che ama sognare ma che sa sempre riconoscere dove il sogno termina e inizia la realtà e trovo la poesia di Katia Debora Melis, soprattutto di questa ultima silloge, molto consapevole non solo del tempo che corre con i suoi vizi e virtù (anche se i vizi sembrano padroneggiare), ma anche di un’utilità pratica, per quanto la poesia possa dirsi “utile” in termini materiali. Nel senso che la Melis esterna una sua considerazione e ce la dona, con il suo linguaggio, chiedendo intuitivamente al lettore di partecipare a quel “gioco”, a prender parte a quel patto di consapevolezza verso se stessi e il mondo, da rendere possibile al lettore di riflettere lui stesso su una serie di immagini e concetti.
Intimoriscono –e molto- anche le “lacrime/ di cristallo/ di un bambino/ spaventato” (30) e ci domandiamo, del motivo della paura provata da quel bambino e se siamo in grado, poi, con la poesia e la nostra predisposizione emotiva a saper in un certo senso rassicurare quel ragazzo che nulla è successo o che quel che di brutto è accaduto non si ripresenterà. Una poesia che non è solo consolazione di sé e degli altri, ma che è principio di vicinanza e motivo di conoscenza di quel mondo in cui viviamo che non è così semplice e buono come saremmo portati a pensare: “Fare un giro nel mondo/ è sofferenza,/ né molta né poca,/ma sempre più profonda/ […]/ ci seppellisce il cuore” (40). Stesse considerazioni sul nostro Pianeta emergono dalla lirica “Sguardo” dove leggiamo “[T]ra i colori del mondo/ a volte così pieni/ di malinconia o di ricordi/ di sogni o di paure” (41); e ritorna –come si è visto- il tema della paura, del timore che si prova intuiamo per i mali del mondo, le ingiustizie sociali e la disperazione per i dolori fisici.
La nostra non s’incanala nella poetica solidaristico-sociale né abbraccia tinte di populismo dove la coralità delle inquietudini diventa proclama di battaglia, ma interiorizza questi stati di malessere per rifletterci e per offrirli a noi lettori affinché, con rispetto e attenzione, anche noi possiamo interpellare la nostra coscienza, sin troppo assuefatta dal caos del mondo.
Jesi, 18.09.2014