Ieri ho fatto un giro in bici fino a Remugnano di Reana, a dieci chilometri da Udine, prendendo la bellissima ciclabile delle rogge, che vi consiglio se non la conoscete già (anche se uno dei motivi per cui mi piace è che non è trafficata, come mio solito). Attraversa piccole frazioni e campi, scorre accanto ai corsi d’acqua e ai loro mulini, passa tra i gelsi e le anatre al bagno, apparendo e scomparendo all’improvviso per chi non la conosce, infilandosi tra gli alberi – ha quello che secondo me è uno dei più grandi e sempre più rari pregi che si possano chiedere a una costruzione umana: la sorpresa e il mistero.
Ormai tutto si giustifica in termini di turismo, piste ciclabili comprese. Siamo schiavizzati dal lavoro, immersi nello squallido, e nelle poche ore che ci rimangono cerchiamo qualcosa di bello da guardare o qualche sfogo fisico. Invece io prendo la bicicletta innanzitutto per andare dove devo: non accetto, per carattere, che ci sia un’ora per l’utile e un’ora per il dilettevole. Intanto che pedalavo verso la mia destinazione ammiravo il paesaggio autunnale. Però anche pensavo, triste, che non c’è scampo dalla città, anzi dall’urbanizzazione diffusa. Per quanto uno esca, cerchi di andare via, ovunque si guardi ci sono sempre case, tralicci, strade, capannoni… per fortuna, ora si sente parlare molto di consumo di suolo, per motivi pratici, economici, estetici, identitari… Sarà difficile però tornare indietro, convincere le persone ad abbandonare la quiete della pseudocampagna e la comodità della macchina, la convenienza (illusoria) del centro commerciale e lo spazio del parcheggio. Oggi leggo l’ennesima conferma della crisi dell’auto: in Friuli Venezia Giulia quest’anno ne sono state vendute il 24% in meno dell’anno scorso. Potrà sembrare cattivo che io esulti delle difficoltà economiche di persone che fino a poco fa lavoravano e adesso si trovano in difficoltà, ma sono stanca di tutto questo impietosirsi per chi non guadagna più, quando fino all’altro ieri ha guadagnato sulla distruzione dell’ambiente e della salute, e quando più che impietosirsi e cercare di tornare indietro sarebbe utile costruire alternative tutti insieme.
Molti sperano che l’economia riparta, che si trovi il carburante miracoloso per cui guideremo automobili all’infinito, ma io no. Io ogni volta che vedo i fiumi di macchine che intasano, avvelenano, deturpano la mia terra e imprigionano la mia città e i miei cittadini penso all’assurdità secondo la quale per muoversi ognuno di noi debba per forza spostare dieci quintali di plastica e metallo. E non dico ogni tanto, per distanze eccezionali, ma ogni giorno, due, tre, quattro volte, avanti e indietro. Quand’è che lo spazio ha perso di senso? Quando torneremo alla terra che ci dà il cibo, l’acqua e i vestiti per coprirci, senza cui nulla è possibile? Quando approfitteremo delle tecnologie non per distruggere, ma per riparare? Forse internet libererà un po’ di pendolari. Forse, come auspico, si tornerà alla terra e ai paesi – quelli veri, non i dormitori che sono rimasti.