Eh sì, oggi tocca a lui. Un libro che ho letto da poco e che è subito entrato a far parte della mia biblioteca essenziale.
Oggi parliamo un po’ di Arancia Meccanica (A Clockwork Orange) di Anthony Burgess.
Devo ammettere che cominciai a leggerlo in un periodo in cui ero preso malissimo dal film, e come dimenticarlo quel capolavoro, e che mi aspettavo una storia simile a quella portata sul grande schermo da Stanley Kubrick ma scritta comunque in un linguaggio normale… invece no, se il modo di parlare di Alex, personaggio della vicenda, vi ha divertito mentre visionavate la pellicola tranquillizzatevi: il libro è scritto praticamente nello stile, pieno di termini goliardici e che rispecchiano, in generale, il lessico di ogni giovane generazione che si affaccia sul mondo; anche se devo dire che in questi tempi sconcertanti per quanto riguarda la gioventù, un linguaggio del genere non farebbe che bene in quanto possiamo facilmente estrarne una grande cultura e conoscenza di termini appartenenti a lingue straniere che non devono per forza essere solo l’inglese.
Bon basta, magari questo discorso lo porterò avanti in un altro post.
Il passo che vorrei proporvi del libro è, ovviamente l’inizio, così che voi possiate verificare facilmente di come il linguaggio usato nel film non si discosti molto da quello con cui è stato scritto il romanzo. Ma bado alle ciance, e lasciamo la parola ad Alex:
« -Allora che si fa, eh?
C’ero io, cioè Alex, e i miei tre soma, cioè Pete, Georgie, e Bamba, Bamba perché era davvero bamba, e si stava al Korova Milkbar a rovellarci il cardine su come passare la serata, una sera buia fredda bastarda d’inverno, ma asciutta. Il Korova era un sosto di quelli col latte corretto e forse, O fratelli, vi siete scordati di com’erano questi sosti, con le cose cha cambiano allampo oggigiorno e tutti che le scordano svelti, e i giornali che nessuno nemmeno li legge. Non avevano la licenza per i liquori, ma non c’era ancora una legge contro l’aggiunta l’aggiunta di quelle trucche nuove che si sbattevano dentro il vecchio mommo, così lo potevi glutare con la sistemesc o la drenacrom o il vellocet o un paio d’altre robette che ti davano un quindici minuti tranquilli tranquilli di cinebrivido stando ad ammirare lo Zio e Tutti gli Angeli e i Santi nella tua scarpa sinistra con le luci che ti scoppiano dappertutto dentro il planetario.»
Avevo ragione o no?! Non sembra di vedere il film?
Comunque, se inizialmente non capirete niente di ciò che v’è scritto non preoccupatevi, ho notato che al primo capitolo si fa un po’ di fatica ad entrare nell’universo linguistico propostoci, al secondo si comincia effettivamente a capire ciò che abbiamo davanti agli occhi e poi, al terzo, tutto è molto più semplice perché si comincia a parlare come il caro e buon vecchio Alex.
Ah, e se proprio non bastasse quello che ho scritto per farvi uscire di casa e andare a comprarlo senza neanche finire di leggere questo post, posso dirvi che l’edizione in mio possesso (Einaudi, Torino, 2010) contiene anche un’intervista al regista Stanley Kubrick (riposa in pace, Maestro) e una testimonianza di Anthony Burgess.
Bene, penso di non avere altro da dire.
A presto, miei cari drughi…
E.