Il dottor Fournier era soddisfatto della seduta di gruppo, a parte l’inattesa crisi nervosa di Alphonse. Affidò al suo taccuino nero alcune annotazioni in proposito con la consueta ordinatissima grafia, lo chiuse passandovi intorno un doppio giro di elastico, infilò la matita nell’interstizio tra pagine e copertina e lo ripose, infine, nel cassetto della sua scrivania, con due giri di chiave. Raddrizzò alcuni fogli bianchi sul ripiano, poi prescrisse ad Alphonse una dose massiccia di neurolettico. Uscendo dallo studio porse la nuova prescrizione, all’infermiere di turno.
-Aumentiamo ancora, doc?- Benoît masticava una gomma mentre parlava e questo irritò Fournier.
-Lei esegua, Benoît, è pagato per questo, mi sembra -replicò secco, e gli voltò le spalle impettito come un tacchino.
La risposta dell’infermiere fu ruminata a lungo insieme alla gomma, poi andò a raggiungere le altre appiccicate sotto il ripiano dell’immacolata scrivania del dottore; beato dell’invisibile vendetta, Benoît si defilò ciabattando verso la corsia illuminata di blu, ignaro del fatto che il dottore lo avesse cancellato dai propri pensieri fin dalla scalinata della clinica psichiatrica.
Con la testa eretta e lo sguardo fisso, Fournier contava i passi del tragitto che lo riportava verso casa
–ventitréventiquattroventicinque-
il resto della giornata dipendeva dal non sfiorare in nessun modo le linee orizzontali dei lastroni di cemento del marciapiede
–quarantasettequarantotto-
nemmeno con la punta dei mocassini con le nappine che collezionava con passione. Senza perdere il conto, mise la mano
-sessantunosessantaduesessanta…-
in tasca, lasciando cadere senza un sorriso la moneta, preparata fin dalla sera prima, nella scatola di cartone del falso storpio che chiedeva l’elemosina vicino al fioraio cingalese
-…trésessantaquattrosessantacinque –
Il sole era ancora alto e l’aria era tiepida: Fournier ebbe quasi voglia di fischiettare, non fosse stato così impegnato nel conteggio, lo avrebbe fatto volentieri, aveva già in testa un’arietta di Mahler.
Fu allora, all’ottantasettesimo passo, ormai a pochi metri dal portone del condominio, che accadde.
Il mocassino si fermò al centro esatto del riquadro di cemento, al centro esatto del mondo; e anche all’esattissimo centro di un escremento canino di fresca fattura. Fournier tentò disperatamente, inutilmente di fermarsi per tempo, ma il contatto fu inevitabile. Un urlo soffocato dai denti serrati sfuggì al dottore che iniziò a strofinare con ferocia la scarpa contaminata sul marciapiede, fino a che questa smise di lasciare maleodoranti tracce marroni. Poi se la sfilò con grande cautela e la prese tra le dita per controllare il danno.
Subito la voce di sua madre lo pugnalò alle spalle: Robeeeert! Alla tua età a giocare con le cose spoooorche! Ora facciamo i conti, piccolo schifosoooo… Fournier irrigidito e pallido fece una piroetta su se stesso, per scoprire che la voce rimbombava solo nel suo cervello e nessuno si interessava a lui. Solo un mostriciattolo di un paio d’anni aggrappato alla gonna della tata negra lo fissava ridacchiando: ebbe la tentazione di lanciargli contro la scarpa lurida, ma si limitò a rivolgergli uno sguardo avvelenato, prima di iniziare a correre zoppicando verso casa, sempre tenendo l’oggetto contaminato lontano da sé.
Sfrecciò davanti al portiere, salendo le scale senza nemmeno contare gli scalini: questa mancanza lo portò ad un parossismo di rabbia tale che rischiò di soffocare nella saliva che gli riempiva la bocca.
Anne, la giovanissima moglie, lo vide fiondarsi in casa rosso in viso, con la cravatta sbavata e una scarpa puzzolente in mano. Nonostante il timore, gli andò incontro tendendo una mano.
-Non mi toccare! Non mi toccare, ti ho detto!- ringhiò a voce bassa l’uomo.