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Pasta e patate

Creato il 25 novembre 2015 da Diletti Riletti @DilettieRiletti

–   Che cuciniamo oggi?

Mia madre fuma seduta al tavolo e getta con aria distratta la cenere per terra. Io la guardo cadere e mi sento tremare i polsi dalla rabbia. Mi giro alla ricerca di un posacenere, ma trovo solo una tazzina sporca che faccio sbattere sul marmo. Lei la ignora, scrollando la punta grigia in aria, si stacca un truciolo lento che svolazza qua e là.

–   Smettila, ma’, che poi tocca a me pulire.

Le parole mi escono sibilando, ho i denti legati, la mascella bloccata. Prendo la scopa, mentre lei butta la testa all’indietro e ride con un verso roco che non ricordavo di aver sentito prima.

–   …già, già! E di là come pulisci?

Indica dietro la spalla, con un gesto vago del pollice, ma è chiaro. Per me lo è. La scopa mi scivola dalle mani e cade al rallentatore fino al pavimento, cade, cade a lungo, poi atterra e rimbalza, a lungo, rumorosa e inutile.

Rosa, cioè mia madre, con una faccia che non conosco, guarda la scopa poi getta la cicca sul pavimento.

–   Io farei pasta e patate.

Per fortuna c’è la sedia vicino a me, posso lasciarmi cadere perché sono stanchissima.

–   Fai quello che ti pare, ma’, tanto non ho fame.

–   Allora pasta e patate. Ma se non cucino…?

Porta le mani alla testa e tira via l’elastico: la massa grigia e unta dei capelli le cade ai lati del viso.

–   …e vado dal parrucchiere. Voglio farmi trovare in ordine e poi questo si vedrà di meno.

Sulla guancia sinistra brilla un taglio come un tratto di pennarello che arriva all’angolo della bocca. Assieme all’occhio nero le dà l’aspetto di un pagliaccio spaventoso.

–   Posso metterti un po’ di fondotinta, ma’.

–   Non te l’aveva buttato l’altra settimana?

–   Sì, e pure il rossetto. Ma sono andata a riprendermeli dal cassonetto.

–   E quando?

–   La mattina. Lui…non mi ha vista, era in bagno.

Mi fissa negli occhi a lungo, per la prima volta da quando è successo. Inizia a ridere timidamente, per non farsi sentire, e io pure. Ci ritroviamo a sghignazzare senza ritegno, piegate sul tavolo con le lacrime agli occhi, senza fiato, senza riuscire a fermarci. Una tempesta che ci lascia ansanti, lo sguardo e le labbra bagnati.

Rosa, la straniera, preme la mano sulla guancia sfregiata, ma una goccia rossa cola tra le dita dalle unghie smangiate.

–   E… -grida quasi- e voglio un vestito, uno bello!

–   Bianco, ma’, bianco e corto.

–   Rosso, rosso. E uno a fiori. Voglio un vestito diverso ogni giorno. E i tacchi. Ora esco e mi compro dieci vestiti. Tu quanti ne vuoi?

–   Ma’, mi basta un paio di jeans nuovi. Belli aderenti. Posso, ora?

Rosa, la donna che non conosco, allunga la mano: sobbalzo, mi tiro indietro. Ma la carezza è partita e deve trovare una fine sul mio viso dalle occhiaie nere. Deve arrivare quella carezza, perché è nata ed è giusta e inarrestabile. La mano esita, si muove perplessa sulla pelle, lisciando i lividi che conservano le impronte azzurre di lui. Che ora non le conosceranno più. Le dita incontrano le lacrime, le spargono attorno. La carezza straniera deve essere così, deve cancellare, guarire, asciugare per sempre.

–   Non piangere, figlia, non piangere, tu non hai colpa. Io lo dirò. Era lui, era lui. Ma ora ha smesso. Per sempre, ha smesso.


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