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A ogni modo visitando città e villaggi, in questo lungo viaggio nell’immensa Patagonia, mi capita di venire a conoscere tante altre storie politiche. Scelgo anche questa volta di mettermi dalla parte dei più deboli: cioè di quei migranti che, stretti nelle stive delle navi, arrivarono quaggiù alla ricerca della vita e spesso trovarono altro; persone che
scelsero di lottare per rimanere uomini liberi.
Oggi voglio parlare dei braccianti e dei salariati, che agli inizi del Novecento hanno abitato le prime città di legno di Punta Arenas e di Ushuaia.
E solo per dare un’idea delle condizioni di lavoro nei grandi allevamenti di pecore qui a Punta Arenas: i braccianti, tra cui molti italiani, dell’allevamennto dei Menendez furono costretti a fare sciopero per chiedere l’abolizione dei castighi corporali inflitti ai lavoratori minorenni da parte dei caposquadra. Altri tempi, naturalmente.
A difendere i lavoratori era nata la Società Obrera della Patagonia. Unsindacato di ispirazione anarchica che metteva insieme i lavoratori di tutti i settori. Dai portuali ai tosatori di pecore.
Il 24 Maggio del 1920 venne eletto segretario del sindacato un giovane immigrato da poco. Aveva appena compiuto vent’anni. Si chiamava Antonio Soto. Ho incontrato questa storia quasi per caso per la strada che mi porta a Rio Gallego. Si dice che fu la prima avvisaglia di un movimento che si estese a tutta la regione.
Lo sciopero generale investì i grandi allevamenti e le prime industrie di trasformazione del pesce e della carne. Tutto si paralizzò, da Santa Cruz a Rio Gallegos, da Puerto Natales a Punta Arenas.
Chiedevano aumenti salariali ma, soprattutto salari pagati in moneta e non con buoni da spendere soltanto negli spacci aziendali. Il governatore, sollecitato dai grandi proprietari e latifondisti fece intervenire l’esercito.
Fu cosi che nell’autunno del 1922 il tenente colonnello Ector Vazela intervenne e la vicenda si concluse con il massacro di migliaia di lavoratori che furono frettolosamente sepolti in fosse comuni.
Nessuno riusci mai a stabilire il numero dei morti ma una cosa è certa: tra quelli che ripararono in Cile e quelli che morirono la popolazione della cittadina di Santa Cruz passò da diciassettemila abitanti ad appena undicimila.
I fatti di Santa Cruz furono rimossi dalla memoria collettiva dell’Argentina, sepolti per più di mezzo secolo sotto le scartoffie di una commissione di inchiesta che non ha mai nemmeno iniziato il suo lavoro. E’ merito dello storico Osvaldo Bayer, che ha pubblicato un libro “ Patagonia Tragica”, se questi fatti oggi sono tornati all’attenzione.
Ed ecco che ancora una volta si ripropone il tema della memoria storica di un paese. Quando tornerò ad Arezzo cercherò questo libro dai miei amici della libreria “Il viaggiatore immaginario”. Spero che sia stato tradotto in Italia, perché anche in Italia abbiamo bisogno di coltivare la memoria.
E’ solo un’altra storia che ho sentito in queste terre alla fine del mondo. In questo mio viaggio ricordare gli avvenimenti ha il senso di un atto di giustizia: la mia personale riparazione al cospetto di una terribile storia che si ripete. http://picasaweb.google.com/titobarbini26
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